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Su "La piuma e la montagna": Enrico Campofreda intervista Giovanni De Luna
Enrico Campofreda
15 ottobre 2008

E' uscito in questi giorni per Manifestolibri "La piuma e la montagna" una raccolta di memorie sugli anni Settanta in Italia curata da Francesco Barilli e Sergio Sinigaglia con un'introduzione storica del professor Giovanni De Luna e una postfazione di Haidi Giuliani. Traendo spunto da talune vicende che contrassegnarono quel periodo abbiamo posto alcune domande al professor De Luna docente di Storia contemporanea all'Università di Torino.

Professore un tema portante della sua introduzione al libro è la constatazione della rimozione perpetuata dallo Stato italiano di numerose morti di militanti politici e cittadini avvenute fra il 1969 e il 1980, morti senza giustizia i cui responsabili e mandanti sono tuttora ignoti o impuniti. Perché dopo quarant'anni dai fatti e dopo il decreto che riduce a trent'anni il "segreto di Stato" le Istituzioni continuano a mostrarsi reticenti ?

Per affrontare un simile passo bisognerebbe dissolvere quella specie di fumo nero che tuttora cela quegli anni, credo ci voglia molto coraggio e occorre essere sicuri della propria legittimazione storica. Ancor'oggi le Istituzioni sembrano mancare di questa intrinseca virtuosità. Così nelle ricostruzioni si parte dalle vittime, è giusto farlo perché esse sono un osservatorio straordinario per comprendere il dramma. Il contributo delle testimonianze di mogli, padri, amici è prezioso, i parenti sono vittime essi stessi. Così la famiglia resta l'unico ambito per opporsi all'oblio in cui sopravvive il ricordo di quelle vite generose. Il governo Prodi nella passata legislatura ha offerto uno spiraglio con la decisione di ridurre a trent'anni il segreto di Stato vedremo se in tal senso il tempo, gli Esecutivi, il Parlamento ameranno la verità.

Ricordando sia la "strategia della tensione" coi suoi 150 uccisi e 650 feriti, sia le tante "zone d'ombra" postume lei afferma che il Potere è andato ben oltre i limiti ragionevoli della segretezza usandola come mezzo di potenza in una logica che travalica la ragione di Stato. Si può aggirare quest'ostacolo ?

Per poterlo fare in maniera credibile occorre volontà come si è verificato in altre nazioni. Mi viene in mente lo scandalo Watergate: anche lì si cercava d'affossare ma quando la vicenda è diventata pubblica è stata affrontata integralmente esaminando ogni prova. Sulle nostre zone d'ombra nessun governo si è battuto a fondo per rischiararle e quando si è aperto qualche spiraglio è stato subito richiuso ermeticamente. Da cittadino, oltre che da storico, mi auguro che questi spiragli si aprano.

Appare chiaro come la pratica della menzogna, oltre a colpire una seconda volta le vittime, introduce sospetti verso l'operato statale, non aiuta una già difficile memoria condivisa e diffonde il seme revisionista nella ricostruzione dei fatti.

Oggi si trasforma più che in revisionismo in un perpetuarsi di memorie ferite perché finché non ci saranno né giustizia né verità ciascuno conserverà una propria memoria, a sinistra come a destra passando per i familiari di tutte le vittime. Il danno più grave risulta la lacerazione nazionale che non è possibile ricomporre. Riguardo al passato e alle menzogne, lasciando perdere la realtà storica che allora non si conosceva perché non avevamo gli strumenti raccolti col tempo, a livello di percezioni quei silenzi, quelle omissioni, quella giustizia che si fermava alle soglie dell'impunità determinarono guasti profondi nell'immaginario dei giovani perché restituivano la fisionomia d'uno Stato sordo, impenetrabile, totalmente chiuso nella difesa dei propri turpi segreti. Quelle d'allora furono lesioni che generarono un'enorme sfiducia nella democrazia e nella legalità istituzionale.

Nelle letture storiche del decennio dei Settanta si parla solo di "anni di piombo" invece furono anche anni d'ideali, impegno, solidarietà. Col sostegno dei gruppi extraparlamentari ci furono le ultime grandi lotte sociali di massa a difesa del salario e contro il carovita con occupazioni di case e autoriduzioni. Quei conflitti creavano coscienza politica diffusa e una sorta di 'contropotere contrattuale' incutendo preoccupazione ai governi. Fu questo che si volle spezzare con stragi e assassini ?

Direi di sì, fu il tentativo d'incanalare quella spinta dal basso e stritolarla fra due meccanismi contrapposti e che non lasciavano spazio alle mediazioni e ad altre visioni della realtà. Quando lo Stato mostrò soprattutto la sua faccia repressiva iniziò a esistere soltanto un confronto-scontro fra i due apparati della forza che non ammettevano nient'altro. Così, ad esempio, le Brigate Rosse per opporsi ai governi replicavano copiandoli sul piano della violenza militare e scimmiottandoli mettevano in scena anche un proprio apparato della giustizia. Questa spirale aprì squarci profondi nella credibilità della democrazia e della stessa mobilitazione dal basso. Le dinamiche di confronto potere e cittadinanza divennero sempre più difficili, la politica si chiuse nei Palazzi, le piazze virarono verso uno scontro perso in partenza perché privo di sbocchi.

Lei parla dei conti con la violenza e del cammino da una pratica difensiva a una offensiva, un nodo era rappresentato dalla violenza di massa attuata nelle piazze e all'opposto dalle azioni d'avanguardia dei fautori della lotta armata che si autoconferivano il ruolo di giustizieri della classe. Si trattava di teorie diverse o c'era una comune matrice legata alla tradizione comunista ?

Nelle Br questa matrice era facilmente riconoscibile ed era rivendicata. Nel movimento era variegata perché comparivano altre fascinazioni, c'era ad esempio molta attenzione all'esperienza delle Pantere Nere che certamente non erano comuniste e alle lotte metropolitane addirittura statunitensi, e poi il guevarismo e altro ancora. Diversi gruppi della sinistra extraparlamentare ebbero un rapporto con la violenza alimentato da più fonti, compresa la vulgata resistenziale che non era riconducibile solo al Pci, si guardavano anche le lezioni gielliste e azioniste. Pur considerando che la violenza dei movimenti di massa era fisiologica e non patologica, che nei pensieri di quella storia ci fosse un forte nesso fra violenza e manifestazione politica l'idea che da un certo momento in poi la lotta si facesse per uccidere cambiava le cose. Il salto delle Br rispetto al movimento non era solo il passaggio da una pratica di violenza difensiva a una offensiva ma quello di togliere la vita ad alcuni rischiando la propria. La gran parte della costellazione violenta del movimento si fermò alle soglie di quel passo che comunque fu compiuto da un numero non esiguo di militanti.

La legge Reale introdotta nel 1975 garantiva alle Forze dell'ordine una sorta di copertura e impunità per l'uso delle armi anche quando provocavano eventi luttuosi (fra l'entrata in vigore e l'89 furono uccise da polizia e carabinieri 254 persone e ferite 371). Inoltre considerando le armi improprie armi da guerra il conflitto si spostò su un terreno estremo e la violenza politica prese la scorciatoia tecnica dell'"armatismo" ben oltre gli iniziali nuclei combattenti. L'Italia visse di fatto in uno Stato di polizia col consenso dei riformisti ?

No, credo che in Italia lo stato di polizia non ci sia mai stato neanche nei momenti peggiori. Certo quel provvedimento incrementò lo scontro e le morti e innestò una discussione politica che favorì molto le teorizzazioni di chi sosteneva come il Paese fosse diventato una dittatura strisciante. Ma proprio dall'autunno del 1975 e per tutto il '76 si verificarono riflessioni nel panorama politico extraparlamentare. Prendiamo Lotta continua, che si scioglierà nel mese di novembre '76, di questo gruppo si è molto studiata la fase che va dal '72 al '76 ma è proprio nel dibattito sulla Legge Reale sviluppato nei mesi che precedettero la disgregazione che i militanti si confrontarono sulla possibilità di transitare in massa verso la lotta armata. L'introduzione di quella legge aumentò anche un certo flusso di questi verso l'armatismo, però la scelta non fu plebiscitaria perché da varie riflessioni uscivano perplessità proprio sul concetto dello stato di polizia.

Comunque nello scontro di classe del secondo dopoguerra la questione dell'uso della violenza è rimasta un tabù irrisolto. Abbiamo conosciuto parecchie autocritiche di chi praticò la lotta armata, molte riflessioni sono giunte alla conclusione che l'uso della forza non può più essere uno strumento d'un moderno impegno politico ma a ogni ripresa di conflitto - come dimostra l'esperienza no global - il problema dell'agibilità del dissenso ritorna. Chi detiene il potere è disposto a cederlo senza reazione ?

Su questo discorso rivolgerei l'attenzione alle posizioni assunte dalle Br che rappresentarono il disegno più eclatante e organizzato della violenza politica di quegli anni. La loro concezione dello Stato era arretrata e sbagliata già in quel periodo, quella visione di statalità Moloch, una statalità onnipresente è una visione che appartiene al Novecento ed è finita col Novecento. Oggi l'idea che si possa combattere lo Stato sul terreno della violenza appare ridicola perché lo Stato si è svuotato dall'interno della sua dimensione di sovranità sia verso il basso tramite i movimenti secessionisti, sia verso l'alto attraverso le istituzioni sovranazionali come l'Unione Europea. Quindi lo Stato-nazione non è più depositario dell'apparato della forza e di quella sovranità che perpetrava sul territorio, e allora contro chi si combatte ? Ma già all'epoca della lotta armata mancavano questi presupposti, lo slogan del "portare l'attacco al cuore dello Stato" era fuori misura perché quello Stato non aveva più un cuore unico, esisteva una forte commistione con dimensioni sovranazionali e poi privatistiche. Il modello di Stato che avevano in mente i brigatisti era un'istituzione ottocentesca e primo novecentesca che dal secondo dopoguerra si andava trasformando. Oggi i margini sui quali discutere di violenza antistatale sono praticamente inesistenti, servono altre forme di mobilitazione.

La speranza d'una società migliore - secondo un utopismo più da socialismo ottocentesco che da leninismo terzinternazionalista che contrassegnò la vita di migliaia di militati per i quali valeva il motto "Sei quello che fai" - introduceva il principio di partecipazione e vita collettiva rimpiazzato dopo la sconfitta dall'indifferenza e la corsa al denaro. Quei valori solidali avevano radici poco robuste o la repressione 'convinse' i ribelli ad accettare il sistema che volevano cambiare ?

Credo sia stata una cosa più complessa perché proprio in quegli anni prese avvio un fenomeno economico articolato che ora abbiamo sotto gli occhi con ricadute nelle scelte comportamentali della popolazione. E' lì che cominciava il passaggio dalla disponibilità a una vita solidale all'egoismo oggi tanto diffuso. Gli stessi ideologi e politici impegnati nelle antinomie fra comunismo e anticomunismo, fascismo e antifascismo non s'accorsero che il panorama socio-economico dell'Occidente mutava. L'impatto che avevano ancora nel 1973 le mobilitazioni dei metalmeccanici di Mirafiori scemeranno per la dismissione di fabbriche e lavoro produttivo in Europa e ancor più in Italia. Un dato: nel decennio 1971-81 Lombardia e Veneto aumentarono del 70% il numero delle persone che iniziavano una propria attività come piccoli imprenditori, era il popolo delle partite Iva che caratterizzò il boom del Nord-est e guardava la realtà con lenti assolutamente diverse da quelle solidali del mondo operaio e del lavoro dipendente. Giungeva a totale compimento quella trasformazione antropologica preannunciata dieci anni prima da Pasolini che ancora nei Settanta molti politici di sinistra non vedevano. Lo intuì Craxi che comprese il ruolo dei nuovi soggetti sociali e cercò di dargli sponda partitica anche se poi virò nella gestione illecita del rapporto fra pubblico e privato. Lo abbiamo già ricordato: il Paese abbandonava la dimensione novecentesca perciò anche le teorie politiche dovevano evolversi, invece all'epoca si seguivano ancora copioni antichi e logori. Oggi il concetto "Sei quello che fai", che pure ispirava le vite dei giovani di quegli anni, è un principio che non ha più velleità di palingenesi, ha perso il nesso della rivoluzione politica, mette in connessione serietà individuale in rapporto alla società: se fai bene il tuo lavoro c'è un vantaggio doppio per individuo e collettività. Quando parlo di discontinuità del sessantottino rispetto alla figura di militante terzinternazionalista, intendo che il primo aveva già un piede nel volontariato nel senso che non riferiva più la sua azione alla Storia e al Partito con le maiuscole, la riferiva a un problema interiore, di coscienza individuale. Credo che lì la dimensione più post-novecentesca del Sessantotto venga racchiusa nella soggettività dei militanti, per quanto quel periodo politico apparteneva al secolo scorso e anche la sua concezione attivistica è passata col secolo che si è chiuso.

Enrico Campofreda, 15 ottobre 2008


Vedi anche:
Reti Invisibili: La piuma e la montagna