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La strage di via Fatebenefratelli
Questura di Milano, 17 maggio 1973
Girolamo De Michele
5 settembre 2005

Il 17 maggio 1973, alle ore 10.53, il vigile urbano Aldo Bernareggi ha appena terminato il suo turno di servizio in via Fatebenefratelli, davanti alla Questura di Milano. Non doveva neanche essere lì, quel vigile: «Qualche pirla aveva parcheggiato in via Manzoni, anche se c'erano i cartelli che lo proibivano, perché di lì passava il corteo delle autorità. Serve il carro attrezzi per rimuovere, vado io e sgombro la strada fino alla Questura. Quando ho finito, si avvicina l'appuntato Masarin, che si occupava della scorta. "Per favore, rimani, così parli con la tua centrale e mi segnali le strade sgombre". Voleva essere sicuro che il ministro non rimanesse incastrato in una manifestazione». Il ministro da proteggere è Mariano Rumor, ministro degli Interni: deve inaugurare il monumento commemorativo a Luigi Calabresi, il commissario di polizia ucciso esattamente un anno prima. Aldo Bernareggi se lo ricorda, il commissario Calabresi. Quel 17 maggio 1972 era in strada a "fare il gambone", cioè il servizio in strada, quando l'auto di un collega lo accosta: «Corri e svolta in via Cherubini, che hanno sparato». È uno dei primi a vedere il cadavere del commissario: «C'era un uomo riverso tra due macchine, mi sembrava incastrato. Cinque persone intorno, che non sapevano cosa fare. Neanch'io capivo cos'era successo. Poi una donna sul marciapiede si mise a urlare: "Gesù, Gesù, è il commissario Calabresi"». Il vigile Bernareggi vede le porte della Questura aprirsi, vede sfilare le auto delle autorità: il sindaco Aniasi, il ministro Rumor. «Vabbè, se non le servo più, io me ne andrei». Bernareggi è tranquillo, sereno, non si interessa di politica: «di quelle cose lì, della politica, delle botte e della rabbia, non ne sapevo niente», dirà trent'anni dopo. Se si interessasse, saprebbe che non c'è da star tranquilli, il quel maggio del '73. Il 7 aprile il terrorista fascista Nico Azzi, con in tasca Lotta Continua, cerca di innescare una bomba ad alto potenziale sul treno Torino-Genova: l'innesco gli scoppia in mano, l'attentato fallisce. Cinque giorni dopo, a Milano, durante una manifestazione del MSI, due militanti del Fronte della Gioventù lanciano una bomba a mano che uccide l'agente Antonio Marino. La sera stessa il segretario del Fronte Radice telefona in Questura e fa i nomi dei responsabili, Maurizio Murelli e Vittorio Loi, figlio di un celebre pugile Duilio Loi: incasserà i 5 milioni di taglia offerti dal MSI. Ma anche la magistratura si muove, in quei giorni: il 15 maggio Guido Gianettini ha ricevuto un avviso di garanzia per la strage di piazza Fontana, il 16 il procuratore della repubblica di Padova, Aldo Fais, ordina la perquisizione della libreria "Ezzelino" di Franco Freda e il sequestro di tutte le schede con i nominativi dei clienti. C'è un clima da escalation, nella primavera del 1973: come se una svolta autoritaria fosse dietro l'angolo, come se bastasse poco - un singolo evento - a provocare un intervento militare. L'11 maggio, a Mosca, il Comitato centrale del PCUS discute il contenuto di una nota intitolata Assistenza speciale al Partito comunista italiano: «La direzione del Partito comunista italiano (compagno A.Cossutta) ha chiesto al Cc del Pcus l'assistenza per quanto riguarda l'avvio di collegamenti radio e la preparazione di documenti (carte d'identità, passaporti e altro) nel caso la situazione politica in Italia dovesse aggravarsi. La direzione del Pci chiede, fra l'altro, che vengano consegnati al partito tre radiotrasmettitori, cifrari per i collegamenti radio e miniattrezzature per la preparazione di documenti; chiede inoltre di ritrasmettere alle varie città italiane messaggi cifrati della direzione del partito nel caso che questo dovesse passare alla clandestinità». Due giorni dopo si svolge uno dei molti colloqui tra il capitano dei servizi segreti Antonio Labruna e Remo Orlandini, braccio destro del principe Borghese. Sull'oggetto dei colloqui, recita la motivazione della sentenza d'appello del 22.02.2005 sulla strage di via Fatebenefratelli, «può dirsi senz'altro che lo stesso aveva come riferimento della sua "linea programmatica" il verificarsi di un colpo di Stato che considerava, oltre che necessario, imminente; per far si che questo divenisse possibile in concreto, e si realizzasse con l'accettazione da parte dei cittadini (o da una gran parte di essi) occorreva che l'opinione pubblica fosse adeguatamente "preparata", vale a dire che la popolazione fosse non solo disposta ad accettare, ma anche a ritenere inevitabile l'avvento di un potere forte che garantisse l'ordine. Solo accadimenti eccezionali, eclatanti anche per i bersagli colpiti, potevano essere i mezzi con cui l'opinione pubblica doveva essere condizionata e convinta». Su questi colloqui c'è un mistero. Il colonnello Labruna sarà costretto a consegnare alla magistratura i nastri delle registrazioni, quasi tutti i nastri - ma di fatto ne manca almeno uno: secondo il teste Digilio proprio quella in cui veniva annunciato il prossimo attentato contro il ministro Rumor. Che questa registrazione sia esistita o meno, un fatto è certo: tra la fine di giugno e i primi luglio del 1973, al ristorante Savini di Milano, nel corso di una riunione viene pronunciata in presenza del Labruna la frase «attendevamo l'attentato a Rumor e non c'è stato alcun attentato a Rumor». Sui rapporti intercorsi tra Orlandini e Labruna lasciamo ancora la parola alla sentenza del 2005: «Labruna ha dichiarato in più occasioni al G.I. di non sapersi spiegare la fiducia in lui riposta dall'Orlandini, che gli confidava segreti così pericolosi, sebbene egli facesse parte, con elevate responsabilità, di strutture dello Stato incaricate che gli scopi di Orlandini, quelli tattici e quelli strategici, fossero conseguiti. Deve constatare la Corte che invece la ricostruzione che precede documenta inequivocabilmente che Remo Orlandini nutriva una fiducia assoluta in Antonio Labruna e che si trattava di una fiducia ben riposta: posto a conoscenza dei delittuosi e gravissimi progetti che il suo interlocutore coltivava, non mosse un dito per impedirne la realizzazione, sebbene ciò costituisse proprio il principale dei doveri del suo ufficio e sebbene egli avesse curato di verificare attraverso i suoi collaboratori la capacità criminale di Orlandini; successivamente alla strage di via Fatebenefratelli che aveva sfiorato quel bersaglio, da lui conosciuto come primario per Orlandini ed i suoi accoliti, nulla fece per indirizzare le indagini delle competenti Autorità».
Ma Labruna non è l'unico ad essere informato di un probabile attentato contro il ministro Rumor. Alle 6.30 del 15 maggio, a Treviso, il conte Pietro Loredan, un «personaggio bizzarro con velleità rivoluzionarie» in stretti contatti con la destra eversiva veneta - il suo locale, "La Falconiera", è luogo di ritrovo abituale dell'estrema destra, Loredan è amico personale di Giovanni Ventura, ne frequenta l'abitazione e , dopo il suo arresto, lo va spesso a trovare in carcere - contatta telefonicamente un suo conoscente, Ivo Dalla Costa, funzionario del Pci: «A Milano tra 48 ore succederà un attentato contro un'alta personalità del governo e ne parlerà l'intera Italia». Dalla Costa avverte il deputato Domenico Ceravolo, che assieme a Giancarlo Pajetta giunge a Milano. Ceravolo si reca in Procura con l'intenzione di informare il giudice Emilio Alessandrini: della denuncia dei deputati comunisti si perdono le tracce, non è neanche sicuro che Ceravolo abbia parlato con Alessandrini o con un altro magistrato. Alessandrini, assassinato nel 1979 da un commando di Prima Linea capitanato da Marco Donat Cattin, non può confermare né smentire.
Un attentato contro il ministro Rumor è dunque, nella primavera del 1973, possibile, anzi probabile. È una morte più volte annunciata nelle riunioni delle cellule venete di Ordine Nuovo, come confermano le dichiarazioni di Siciliano riportate nella motivazione della sentenza del 2005: «sentii più volte, in occasione di discorsi nell'ambiente di Ordine Nuovo e in particolare nell'ambito della cellula di O.N. di Mestre, negli anni dal 1970 al 1973, parlare della necessità di eliminare un bersaglio politico importante, sempre nell'ottica della strategia del gruppo. In colloqui prima singoli e poi con Zorzi, Maggi e Molin, con i quali ero direttamente in contatto, sentii più volte dire esplicitamente dagli stessi che l'obiettivo da colpire era l'On. Rumor: era infatti necessario colpire lo Stato nella persona del Ministro dell'Interno nell'ambito della strategia tesa a destabilizzare lo Stato. L'uccisione del Ministro dell'Interno era un fatto capace di impressionare di più l'opinione pubblica in quanto colui che avrebbe dovuto proteggere gli altri non era stato capace di proteggere se stesso. Il nome esplicito di Rumor fu più volte fatto in quelle discussioni direttamente da Zorzi, Maggi e Molin fin dal 1972». Vincenzo Vinciguerra, reo confesso della strage di Peteano, ha spontaneamente dichiarato di avere, tra il 1971 e il 1972, per tre volte risposto negativamente alla proposta, fattagli dai dirigenti ordinovisti Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, di assassinare Rumor penetrando all'interno della sua villa, «avendo cominciato a nutrire dubbi sulle figure di Maggi e di Zorzi e sul loro inquadramento nei Servizi di Sicurezza».
È solo una ragione di "opportunità politica" quella che spinge Ordine Nuovo a volere la morte del ministro Rumor? Probabilmente no. Rumor ha anche la "colpa" di aver dato l'avvio al procedimento di scioglimento di Ordine Nuovo, in applicazione della legge Scelba. Ma soprattutto, da Rumor, capo del governo nel dicembre 1969, il "partito del golpe" si aspettava, all'indomani della strage di piazza Fontana, un provvedimento estremo: la proclamazione dello stato d'emergenza, o quantomeno lo scioglimento del Parlamento ed elezioni anticipate che avrebbero dovuto favorire una svolta neo-centrista ed autoritaria. Rumor, la cui adesione al "partito del golpe" era data per certa in ambito stragista, si era invece schierato con le posizioni di Aldo Moro e del neo-segretario della DC Forlani, contrari allo scioglimento delle camere e all'interruzione dell'esperienza politica del centro-sinistra.

Torniamo al 17 maggio 1973. Accanto al vigile Bernareggi c'è l'appuntato Federico Massarin: entrambi hanno 33 anni, sono appoggiati spalle al muro. «Muoviamoci che se qui iniziano a tirare pietre, finisce che si menano», dice Bernareggi al collega, poi si volta e vede qualcosa volare dall'altra parte della strada in direzione del portone: «Non pensai a una bomba, mi vennero in mente solo i sassi». In quel momento Bernareggi entra nella storia d'Italia: perché quell'oggetto che parte dall'altro lato della strada non è un sasso, ma una bomba a mano di fabbricazione israeliana, una micidiale bomba "ananas" a frammentazione. Il lanciatore è troppo distante per centrare l'auto di Rumor, e per di più lancia male: la bomba rotola a fianco del portone ed esplode proprio contro quel muro contro il quale Bernareggi e Massarin chiacchieravano. L'esplosione provoca due grossi buchi nel muro e un mare di micidiali schegge. Pochi istanti dopo un fotografo immobilizza per sempre quattro corpi martirizzati: «Il muro di via Fatebenefratelli tempestato di schegge, nel mezzo due buchi più grandi, il punto dove esplose la bomba lanciata da Gianfranco Bertoli. Quattro persone per terra, rivoli e schizzi di sangue sul marciapiede. Due donne accasciate (si chiamavano Gabriella Bortolon e Felicia Bertolozzi, poco distante, fuori dall'obiettivo del fotografo, c'è un'altra vittima, il pensionato Giuseppe Panzino). E poi, uno accanto all'altro, sdraiati supini, l'appuntato Masarin, con una espressione incredula. E il vigile Bernareggi, con i pantaloni stracciati, la suola delle scarpe sfondata dal botto, sangue che esce anche da lì» [Marco Imarisio, Corriere della sera, 17 maggio 2003]. Bernareggi è l'unico sopravvissuto di quella foto: si è voltato, e per questo non ha preso le schegge in volto, ma sulla schiena. Viene dato per spacciato per il troppo sangue perso, gli danno due volte l'estrema unzione, ma si salva: ha ancora, nel corpo e nelle gambe, 130 schegge.
C'è una seconda foto negli archivi della memoria: Gianfranco Bertoli, l'attentatore, bloccato dalla folla pochi secondi dopo il lancio. È quasi indifferente, non ha cercato di scappare: sembra lì per caso. Confrontate la sua espressione con quella dell'anonimo cittadino che, alle sue spalle, allunga un braccio per afferrarlo: chi direste che ha appena ucciso 4 persone e ferito altre 46?
Ma chi è Gianfranco Bertoli? Appena arrestato si dichiara anarchico individualista, dice di provenire da un kibbuz israeliano dal quale ha rubato la bomba, sostiene di aver voluto vendicare la morte di Giuseppe Pinelli, di aver agito da solo. Purtroppo l'arresto immediato ha paradossalmente nuociuto alle indagini: nella confusione non sono stati fatti quei rilievi che sembrano al momento superflui. Fatto sta che Bertoli è stato visto già alle 9.40 davanti alla Questura: ma era arrivato in anticipo, e aveva deciso di passare dal bar a bere un brandy. È per questo che, quando ritorna, non riesce ad avvicinarsi al portone della Questura e si posiziona sul marciapiede di fronte. Dove, secondo alcuni testimoni, è in compagnia di due uomini, dei quali si perdono le tracce. Di Bertoli no: lui di tracce ne ha lasciate sin troppe, e non solo nei giorni precedenti. È vero, è partito l'8 maggio da Haifa (Israele): ma dopo aver fatto scalo a Genova riparte per Marsiglia, dove paga tre notti anticipate all'Hotel du Rhonne. Dopo il primo giorno però in albergo non si fa più vedere: sono andato in giro, dice. Per due giorni? Il 16 è Italia: ha in tasca un passaporto rubato e falsificato, intestato a Massimo Magri, militante marxista-leninista. E dice di avere con sé quella bomba a mano, con la quale avrebbe passato indenne ben 3 frontiere. A Milano si avvicina all'edicola gestita dall'anarchica Augusta Farvo, e cerca inutilmente di farsi dare l'indirizzo di un altro anarchico. In serata è a casa di Rodolfo Mersi, sindacalista fascista e confidente della polizia, nonché trafficante di armi a Venezia negli anni 1954/55: all'epoca Mersi si era rivolto proprio a Bertoli, anche lui nel commercio delle armi, per i suoi traffici. Mersi non c'è, Bertoli si intrattiene per due ore con la moglie, fa strani discorsi: si dichiara militante di Al Fatah, afferma di essere in grado di far saltare in aria il Parlamento. Verso le ore 23 il Mersi, dal ristorante in cui lavora, telefona a qualcuno dicendo: «pronto dottore, è già arrivato il treno, io torno a casa tra 35-40 minuti». Poche ore dopo la strage il Mersi si precipiterà in Questura per denunciare il Bertoli. Quella di Rodolfo Mersi non è l'unica conoscenza "strana" per un sedicente anarchico, anche in Israele ha amicizie : ad esempio i fratelli Jemmy, esponenti di Ordre Nouveau, versione francese di Ordine Nuovo. Ma soprattutto, l'anarchico solitario non è né anarchico, né solitario: sotto il nome in codice di «Negro» è stato agente dei servizi segreti dal 1954 al 1960 (SIFAR), infiltrandosi nel PCI, e poi di nuovo dal 1966 al 1971 (SID), quando fugge in Israele. Non solo: alla pubblicazione degli elenchi della struttura Stay Behind («Gladio») salta fuori il suo nome. Un caso di omonimia, sostengono i servizi segreti. Ma la scheda del "secondo" Bertoli contiene grossolani errori, compreso un numero telefonico attivato il 4 settembre 1984: su un fascicolo originale del 1971 ufficialmente chiuso nel 1972? L'interrogativo è particolarmente inquietante: perché se Bertoli è un ex-gladiatore, lo Stato gli ha versato regolarmente la pensione di anzianità per il servizio prestato in una struttura formalmente parte dell'esercito.
Dal 1971 al 1973 Bertoli dichiara di non aver lasciato mai Israele. Anche questa è una menzogna: i magistrati accertano diverse uscite da Israele, soggiorni in Francia e Italia per i quali sono rintracciati testimoni. Uscite che però non risultano dal passaporto di Bertoli: evidentemente quello legale non è il solo documento di cui si avvale in quegli anni. Secondo il pentito Digilio, durante uno di questi viaggi Bertoli avrebbe soggiornato in un appartamento in via Stella, a Verona, dove sarebbe stato indottrinato e istruito a fornire la versione dell'anarchico individualista da Carlo Maria Maggi, già menzionato capo veneto di Ordine Nuovo (organizzazione nei cui arsenali erano già state ritrovare bombe di fabbricazione israeliana, in un caso proprio a Verona) ed altri esponenti della stessa organizzazione, tra i quali Marcello Soffiati, ordinovista a libro paga nella CIA, sospettato di aver trasportato la bomba della strage di Brescia, morto nel 1988. Digilio però cambia più volte versione su questo evento, non ricorda con precisione la data e non è in grado di fornire riscontri: la sua testimonianza, in questo caso, non è ritenuta avente valore di prova. Resta il fatto che i neofascisti chiamati in causa - Maggi, Neami, Boffelli e Soffiati - negano la presenza di Bertoli nell'appartamento, ma implicitamente ammettono l'esistenza dell'appartamento. Altri testimoni - da Siciliano a Vinciguerra - affermeranno l'esistenza di consolidati legami tra Maggi e Bertoli, ritenuto uomo di Ordine Nuovo.
L'inchiesta del giudice Lombardi, che riapre il caso dopo le rivelazioni di Digilio, Siciliano e Vinciguerra, si incrocia e si sovrappone con quella del giudice Salvini sulla strage di piazza Fontana: i riscontri dell'una confermano quelli dell'altra, in un quadro di oscura strategia volta a «destabilizzare per stabilizzare». E con l'inchiesta Salvini condivide l'iter processuale: una sentenza di primo grado (2000) che condanna all'ergastolo (pena che Bertoli aveva già subito) per strage i neofascisti Carlo Maria Maggi, Giorgio Boffelli, Francesco Neami, Amos Spiazzi, e a 15 anni per depistaggio Gianadelio Maletti, generale del servizio segreto militare; una sentenza d'appello (2002) che ribalta tutto, smentendo l'istruttoria-Lombardi e assolvendo i neofascisti; l'annullamento dell'appello in Cassazione (2003); infine, la sentenza del 22 febbraio 2005, che conferma l'assoluzione per i neofascisti. In questa sentenza, che assolve Maggi in base all'art. 530, II comma del c.p.p. (l'equivalente dell'insufficienza di prove), si riconosce che Bertoli «non agì perché mosso dalla propria scelta ideologico-politica di anarchico individualista, come lo stesso ha sempre sostenuto, bensì fu solo l'esecutore materiale dell'attentato, in attuazione di un incarico da altri affidatogli». Quali altri? «È ragionevole e corrispondente a una valutazione logica dei dati di fatto accertati», scrivono i giudici, ritenere «probabile» che la strage sia stata organizzata «dal gruppo ordinovista facente capo a Maggi [...]unica formazione in grado di agire concretamente, di compiere attentati». Dunque, se manca la prova concreta che collega Bertoli a Maggi - l'ordine di eseguire la strage potrebbe essere stato dato a Bertoli «da altri esponenti di gruppi ordinovisti veneti» - viene confermato che Ordine Nuovo era una «associazione eversiva» che perseguiva «finalità criminose», e i cui membri «condividevano la linea stragista, meditavano attentati, auspicavano un colpo di Stato e disponevano di consistenti quantità di armi, munizioni ed esplosivi».
Come per piazza Fontana, la verità giudiziaria si ricongiunge alla verità politica.
Come per piazza Fontana, nessuno paga per aver ideato e organizzato una strage.
E Bertoli, l'unico condannato? Alcolizzato prima del carcere (ricordate il brandy prima dell'attentato?), eroinomane negli anni Ottanta, il sedicente anarchico ha continuato a professare la propria fede politica, negando i rapporti con gli uomini dello stragismo; ha tentato il suicidio iniettandosi un grammo e mezzo di eroina (si salverà dopo due giorni di coma), e lasciando un biglietto con su scritto: «Non sopporto più di non essere considerato un vero anarchico, non ne posso più, non c'entro niente con i neri». Si avvicina a Comunione e Liberazione, ma intraprende anche una collaborazione con A-rivista anarchica (gli interventi sono raccolti nel libretto Attraversando l'arcipelago, edizioni Senzapatria). Alla sua morte, nel novembre 2000, viene seppellito per sua volontà con funerali religiosi, e nella bara porta con sé con un crocifisso e una bandiera degli ultras del Livorno. Scrive Umanità Nova (n. 41, 17 dicembre 2000): «Chi era veramente Gianfranco Bertoli? Un fascista, un agente dei servizi? Un compagno, sebbene avesse compiuto un errore tragico e imperdonabile? Un compagno caduto in qualche trappola dei servizi che lo avrebbero strumentalizzato ed usato? Il suo difficile vissuto personale non può aiutarci a dare una risposta certa, univoca. Probabilmente la verità è calata nella fossa con lui».


Per approfondimenti:


sentenza del 22.02.2005:
http://www.reti-invisibili.net/questuramilano/articles/art_3480.html


Gianni Barbacetto, La penna dell'oblio, «Diario» 7 febbraio 2003


Marco Imarisio, Strage Questura Milano: parla l'ultimo sopravvissuto della foto, «Corriere della sera» 17 maggio 2003


Foto dell'arresto di Bertoli:
http://www.societacivile.it/img/foto/foto_memoria/bertoli/bertoli_arresto.jpg