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"A noi interessava che dal film uscisse la verità storica su Piazza Fontana e dal film esce. A noi interessava che si capisse che Freda e Ventura fossero i mandanti e che la bomba arrivasse da Padova da Ordine Nuovo, come è venuto fuori nel 2005 dalla Corte di Cassazione. Chi non sa nulla della strage da questo film può saperne di più. Sulle due bombe non so, io so che in quella banca ho perso mio padre e se sono state una o due poco cambia. A me interessa sapere chi è stato e dal film si capisce".

Carlo Arnoldi, Presidente Associazione Vittime Piazza Fontana

Uno strascico di critiche e commenti discordanti, accuse e anche qualche pregiudizio. L'uscita del film Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana ha riaperto ferite, dolori, memorie pietrificate, rabbia, immagini di affetti perduti e ancora tanta voglia di parlarne, di capire, di non rassegnarsi ad una sentenza insopportabile che ha chiuso quasi quarant'anni di processi senza condanne. Quindi senza colpevoli, come è scritto bianco su nero alla fine del film. Dove si legge, cosa per molti nota, che Freda e Ventura sono stati giudicati responsabili, ma non sono più condannabili. Marco Tullio Giordana non si sottrae alla ricerca della verità e con un'opera d'arte prova a riprendere il filo e a ricostruire una storia insabbiata. Non inventa niente, semmai trasfigura. Spiega chiaramente chi sono i buoni e i cattivi e i cattivi non sono certo gli anarchici. I fascisti di Ordine Nuovo, i Servizi Segreti deviati, lo Stato. Responsabilità che, a chi con il peso storico della Strage di Piazza Fontana ha sempre convissuto, non sono estranee. Nelle tante critiche lette in questi giorni c'è un tratto comune: una sorta di paraocchi difensivo o di paralisi emotiva, nei confronti della lettura e della comprensione del film. Solo per citarne alcuni: chi molto critico come Adriano Sofri, Corrado Stajano, Ezio Mauro; chi più concentrato sulla ricostruzione storica Miguel Gotor e Maso Notarianni; chi con il proprio vissuto personale come Eugenio Scalfari. Quasi tutti però, come se in Giordana identificassero un colpevole, da additare come revisionista, come qualcuno che ha osato toccare una storia ferma, di cui ognuno si è fatto un'idea così fragile che basta un colpetto di vento per dissolverla. Fragile, perché la mancanza di giustizia non ha potuto cementificarla, archiviarla e fare un passo avanti. Oltre a questo c'è un motivo concreto che spiega i pregiudizi: il libro di Paolo Cucchiarelli, che ha forgiato a sangue i titoli di testa di Romanzo di una strage. Un errore, forse una leggerezza, mancanza d'informazione e di una visione dettagliata da parte della produzione che ha acquistato i diritti di un libro definito revisionista e pieno di errori storici. Libro acquistato prima di coinvolgere Giordana alla regia e che in realtà, come ha detto Aldo Giannuli in un articolo equilibrato e corretto, il regista nel film ha praticamente smentito. E che lo sceneggiatore Stefano Rulli in un'intervista a Radio Popolare non prende nemmeno in considerazione, spiegando che il lavoro di scrittura (per motivi generazionali e politici) è durato una vita, raccogliendo tutto quello che è stato scritto e detto su quella strage, consultando gli atti processuali. Semmai Romanzo di una strage porta con sé gli sgangheri di un'"industria" cinematografica ancora troppo debole per affrontare temi importanti e di un'opinione diffusa che porta a sottovalutare chi attraverso l'arte, la cultura e il cinema tenta di affrontare temi storici e politici. Un esempio è proprio il fatto che i commenti di chi scrive di cinema sono stati una minima parte e perché siamo stati abituati da una stampa e da una tv viziate, che il cinema è solo gossip e divertissement. Ma questa è un'altra storia e per fortuna, nella realtà non è così: di bravi registi italiani che sanno raccontare i nostri anni al cinema ce ne sono. Marco Tullio Giordana è uno di questi. L'ho intervistato per Radio Popolare all'indomani dell'anteprima milanese e alla vigilia dell'uscita del film Romanzo di una strage.

Come mai ci sono voluti più di quarant'anni per fare un film su Piazza Fontana?

Prima di tutto bisogna ricordare che negli anni successivi alla strage c'è chi ha fatto di tutto perché la verità non venisse mai a galla, che non se ne parlasse fino a dimenticare. Facendo in modo che questo fatto si imprimesse nelle generazioni future come uno shock originario dalla nascita, in modo che fosse ben chiaro che una parte dello stato potesse essere violenta restando impunita. Quindi negli anni immediatamente successivi, con le bocce in movimento e le ceneri ancora, non calde ma roventi, era difficile non schierarsi ed era difficile per un'artista avere la possibilità di comprendere tanti punti di vista, di leggerli tutti per poi scegliere il proprio. Per quanto mi riguarda, non avevo ancora un'esperienza sufficiente per poter affrontare un argomento così complesso. Avevo diciannove anni nel 1969, non pensavo neanche di fare il regista, adesso che ne ho sessantuno mi sono sentito pronto.

Il lavoro di ricostruzione storica tra memoria, documenti, atti processuali, testimonianze, libri, com'è stato strutturato?

E' un lavoro che andava fatto. Poi la rappresentazione artistica è necessariamente una sintesi, un'elusione oppure il contrario, decidere di gonfiare un particolare significativo. Ma è un lavoro che non si può fare se non si conosce molto a fondo e molto bene l'argomento. Questa è una storia che io non ho mai perso di vista negli anni della mia vita, ho sempre cercato di capire che cosa fosse successo veramente, discernendo gli elementi tra scoperte autentiche e depistaggi.

Perché nei titoli compare che il film è "liberamente tratto" da Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli?

Il libro di Cucchiarelli non l'ho scelto io, l'ha scelto il mio produttore, io sono entrato in scena in una fase successiva. Era un libro ponderoso, con un lavoro di documentazione accurata, ma opinabile in alcuni punti. Però se mi si chiede di scagliare l'anatema contro Cucchiarelli io mi rifiuto di farlo, contro chiunque. Io non sono d'accordo con Cucchiarelli su almeno tre cose fondamentali. Primo: che, sia pure inconsapevolmente, gli anarchici possano aver messo una bomba, un petardo che dovesse scoppiare a banca vuota come gesto simbolico.
E che la bomba devastante sia stata messa immediatamente dopo dai neonazisti veneti, utilizzando un sosia di Valpreda per riuscire ad attribuirgli la responsabilità. Io credo che Valpreda non c'entri assolutamente niente. Secondo: che Pinelli in qualche modo fosse a conoscenza di movimenti strani fra gli anarchici. Pinelli era una persona che escludeva completamente l'idea della violenza dalla propria vita, dalla propria formazione. Sembrava quasi di un'altra epoca, si può dire che fosse un anarchico dell'800. Terzo: che il Commissario Calabresi fosse nella stanza nel momento in cui Pinelli precipitò o fu precipitato dalla finestra del suo ufficio. Su questi tre punti non sono d'accordo. Ho fatto il mio film, un film molto diverso dal libro di Cucchiarelli ma anche da tutti gli altri libri che ho letto; non ho usato una sola fonte.

Sia Giuseppe Pinelli che Luigi Calbresi vengono descritti come vittime dello Stato. E anche Aldo Moro è raccontato sotto un'altra luce, che modifica il senso del suo destino.

Sono uomini animati dalla fiducia in quello che fanno. Pinelli nei propri ideali, il Commissario Calabresi crede nello Stato e pensa di migliorarlo pur stando dentro ad una Polizia ancora arcaica, un corpo ancora soggetto alla disciplina militare. Moro era un uomo della Stato, tutt'altro che ingenuo, un uomo che sapeva, che utilizzava l'intelligenza per governare, conoscendo le regole del compromesso e dei rapporti di forza. E aggiungerei una quarta figura, quella di Marco Nozza che rappresenta quel giornalismo d'inchiesta, coraggioso, rappresentato anche da molti altri: Camilla Cederna, Giorgio Bocca e tutti quelli che hanno combattuto le veline ufficiali cercando di arrivare alla verità. Senza questo giornalismo d'inchiesta, con un'informazione coraggiosa, interrogativa e non subordinata al potere, sarebbe impossibile l'esercizio della democrazia. Sono tanti gli insegnamenti lasciati dalla strage di Piazza Fontana: la violenza terribile e intimidatoria anche a futura memoria; l'anticorpo dell'Italia di allora che reagì con quei funerali enormi, di popolo, senza insegne e senza applausi e che spaventò i fautori di un colpo di stato, nel caso avessero avuto l'idea di mandare per strada i carri armati; e l'informazione, perché senza informazione non c'è democrazia.

Romanzo di una strage è cinema nel senso più alto del termine, di come se ne dovrebbe fare più spesso in Italia. Non siamo ancora pronti per fare e comprendere questo genere di cinema?

Questo tipo di film spesso genera una chiave di lettura univoca, filtrata dalle proprie opinioni politiche e viene preso come se fosse un saggio, una sorta di manifesto o pamphlet, invece un cineasta deve fare i conti con il cinema, deve raccontare una storia, deve spiegare attraverso i personaggi quello che è successo. Per questo il cinema ha il diritto, non di falsificare le cose, ma di adattarle alla necessità del racconto per stare nei tempi canonici di una pellicola. Bisogna fare un grande sforzo di sintesi.

Com'è stato il dietro le quinte di due scene importanti e delicate come quella dell'esplosione e dell'interrogatorio con la caduta di Pinelli?

Le scene dell'esplosioni sono terribilmente verosimili e sono state girate nella vera Banca Nazionale dell'Agricoltura e, devo ammettere, anche con mia grande angoscia. Io sono milanese, all'epoca avevo diciannove anni, ero su un tram a duecento metri da Piazza Fontana, sono stato lì subito dopo, ho visto il macello e riprodurlo per finta mi ha fatto sentire veramente male. Abbiamo messo questa scena all'inizio del film perché me ne volevo liberare fin da subito. Abbiamo ricostruito l'interno e quelle scene sono molto importanti, perché raccontano il prima e servono a dare un volto alle persone che c'erano dentro. Noi diciamo sempre diciassette vittime, più Pinelli e Calabresi a cui io aggiungo anche il mio compagno di scuola Saverio Saltarelli che fu ucciso da un candelotto sparato ad altezza uomo, l'anno successivo durante una manifestazione per commemorare il 12 dicembre, ma si tratta sempre di un numero. Per quanto riguarda l'interrogatorio in Questura, ormai tutti i testimoni diretti sono scomparsi, tranne uno. E' morto il brigadiere Vito Panessa, sono morti i vice brigadieri Muccilli e Caracuta. E' ancora vivo l'allora tenente dei Carabinieri Savino Lograno, l'unico che potrebbe dare la vera versione perché era lì. Io ho fatto una congettura, quindi con beneficio di inventario, ma credo abbastanza vicina alla realtà.

Il titolo è ispirato a Pasolini, che chiude a cerchio questa pagina drammatica italiana. E' questo il senso?

Sì. Romanzo Criminale non c'entra niente. Il titolo del mio film fa riferimento a quell'illuminante articolo Il Romanzo delle Stragi, che Pier Paolo Pasolini scrisse sul Corriere della Sera nel 1974 quando cominciavano già ad accumularsi tante stragi e tante vittime, in cui ci raccontò in tempo reale la sua interpretazione, molto vicina alla realtà.