C'è da chiedersi perché Giordana abbia scelto una strada così tortuosa per far intravedere che in Italia c'è stata una strategia della tensione, sanguinosa e letale per la democrazia, che non fu un complotto ma una politica durata ben più di un decennio. La teoria delle due bombe alla Banca dell'Agricoltura di Piazza Fontana, una piazzata dai servizi segreti (o dai fascisti) e l'altra - di per se inoffensiva - che avrebbe dovuto essere collocata dagli anarchici strumentalizzati (dai servizi o dai fascisti) e che invece sembra piazzata da un fascista infiltrato sosia di Valpreda, il quale Valpreda sarebbe tuttavia in qualche modo coinvolto, ebbene questa teoria assolutamente infondata e un po' cervellotica, complica inutilmente la sceneggiatura del film e francamente inserisce un elemento di depistaggio dell'attenzione in una vicenda che di depistaggi ne ha già tanti. Forse avesse tenuto conto maggiormente di altre letture, Giordana avrebbe trovato un percorso più comprensibile e più coinvolgente anche sul piano emotivo anziché addentrarsi in ricami spericolati suggeriti dal volume di Cucchiarelli (ponderoso libro che è stato letteralmente demolito dal feroce e documentatissimo pamphlet di Adriano Sofri), testo che a quanto pare è stato scelto dalla produzione e non dal regista ma che ha segnato in vari modi il risultato. Non solo per la teoria delle due bombe, ma anche per una dinamica difficile da seguire per chi non conosce già tutto, come se ci fosse la preoccupazione di raccontare tanti tasselli, alcuni storici, altri ipotetici, altri ancora romanzati, al che la narrazione sembra scivolar via dalle non poche certezze che in tanti anni si sono ottenute sulla matrice della strage, sull'esecuzione, sulla valenza politica e sugli schieramenti che si sono scontrati: da un lato i negazionisti del complotto, in buona parte a vario titolo conniventi, e dall'altro giornalisti, militanti, magistrati, movimenti politici e sindacali, intellettuali, famigliari delle vittime che hanno sfondato il muro del silenzio.
Nel film Romanzo di una strage colpisce in particolare quella che appare la santificazione di alcuni personaggi. Aldo Moro, ministro degli esteri, eminente democristiano, che è tratteggiato come pilastro della verità, capace perfino di scuotere l'atlantico presidente Saragat, e scopre il complotto; una scoperta che nelle sue grandi linee era già pubblicata dalle prime controinchieste della sinistra extraparlamentare, il libro La strage di Stato esce nel giugno del 1970 e racconta cose che nel palazzo si sapevano, alcune da anni, visto che convegni e proclami sulla guerra non convenzionale anticomunista erano di pubblico dominio, persino patrocinati dagli Stati maggiori delle Forze Armate. E poi il commissario Luigi Calabresi, descritto come paladino, fino al donchisciottismo, di una legalità impraticabile, figura difficile da far coincidere con la verità storica sapendo che aveva avallato la falsa versione di un Pinelli suicida per disperazione e che dopo, anche mesi dopo, la morte dell'anarchico il suo ufficio continua a indagare non sulle sue responsabilità nella strage - che già allora nessuno crede - ma su possibili comportamenti equivoci nel passato che avrebbero potuto in qualche modo comprometterne la figura e forse giustificare l'accanimento poliziesco di cui fu vittima. Anche Giuseppe Pinelli viene santificato da Giordana, ma lo era già stato da anni con un curioso fenomeno (risarcitorio?) persino melenso. Pinelli era un militante anarchico scevro da santificazioni, figuriamoci la sua. Meno indulgente il film con gli altri anarchici, non solo infiltrati (ma chi non è stato infiltrato e spiato in quegli anni, e anche dopo?), ma anche comparse un po' ridicole.
Licia Pinelli non ha voluto andare a vedere il film, ha sofferto abbastanza negli oltre quarant'anni di lotta per la verità sulla morte di Pino. Qualche mese fa Giordana le presentò una copia di lavorazione e Licia non fece obiezioni sulla figura di Pino. Non si pronunciò sul resto. Sono andate a vedere il film le figlie Claudia e Silvia, sono uscite turbate anche dall'assoluzione del commissario Calabresi che - ovunque fosse nel momento della defenestrazione - era pur sempre il titolare responsabile del fermo illegale e dell'interrogatorio che avveniva nel suo ufficio. Altri famigliari di vittime della strage e del terrorismo hanno giudicato il film tutto sommato positivo, almeno perché toglie dall'oblio la vicenda e forse stimola dei giovani ad andarsi a leggere qualcosa.
Ma è difficile cancellare la sensazione che il film si sia in qualche modo giostrato, tra buoni e cattivi, tra verità accertate e ipotesi non documentate, tra palazzo e società appena intravista, suggerendo una sorta di accomodamento, forse una revisione - fatta con eleganza e insospettabile onestà intellettuale - nella quale si sfuma la catastrofe che quella strategia ha costituito. La lunghissima lotta del potere contro i movimenti sindacali, politici e studenteschi condotta con spranghe, bombe, denunce, arresti, licenziamenti. Come dimenticare i 350.000 lavoratori schedati dalla Fiat per le loro opinioni politiche? E le stragi che seguirono, per anni. E le battaglie di controinformazione che salvarono il salvabile di una democrazia mutilata. Le decine di migliaia di persone che ai funerali delle vittime bloccarono con la loro imprevedibile presenza i progetti golpisti, convincendo (loro e non certo Aldo Moro) il presidente del consiglio Rumor a non chiedere lo stato di emergenza perché avrebbe trovato un muro nella società. E le clientele che, pur rinunciando a scontri frontali, su quei progetti e su quella violenza hanno contato per pascersi e perpetuarsi? Neanche lontanamente tutto ciò va considerato una critica alla sceneggiatura e tantomeno un'ipotesi alternativa. Ed è ovvio che un film non è un documentario. È solo la constatazione che il respiro altamente drammatico di quella stagione non emerge. Chi si documenterà in proprio riuscirà a coglierlo? E riuscirà a intuire quanto di quegli anni ha determinato la vita del paese fino ai giorni nostri?