Marco Tullio Giordana risponde, tramite una lettera indirizzata al Corriere della Sera, alle critiche al suo film "Romanzo di una Strage"
Caro Direttore, sapevo che Romanzo di una strage avrebbe scatenato polemiche, non sono un ingenuo. Anche se il vero senso del film è il suo tentativo di spiegare ai ragazzi d'oggi cos'è stato quel tempo e quell'età, non mi sorprendo che chi l'abbia vissuta possa criticarlo. Me l'aspetto, l'ho messo in conto.
Ieri Corrado Stajano, prima di lui Mario Calabresi, poi Adriano Sofri, poi Gerardo D'Ambrosio (qualcuno anche senza aver visto il film) mi accusano d'aver messo troppo o troppo poco, d'aver eluso informazioni o averne azzardate di troppo fantasiose, quasi tutti rimproverandomi di avere eletto un libro di Paolo Cucchiarelli a mia unica fonte e guida.
Le cose che a Stajano paiono mancare, nel film ci sono invece tutte, a partire dal clima nero di violenza. Vorrei però precisare una scelta che gli spettatori dell'anteprima milanese di lunedì scorso mi sembrano aver colto in pieno. La violenza, parte integrante di quegli anni ma non unica chiave di lettura, io ho voluto intenzionalmente «raffreddarla». La si conosce bene, inutile indulgervi. Romanzo di una strage non è un film di denuncia fatto a caldo, non è mosso dall'indignazione e non la cerca. È piuttosto il tentativo di spiegare la nascita di un fenomeno costitutivo della nostra Seconda Repubblica, promulgata non ufficialmente proprio quel 12 dicembre 1969 e fondata su un doppio Stato. Uno legale nel quale vigono le garanzie della Costituzione e un altro parallelo e sotterraneo fatto di scambio, patto, contrattazione e trattativa segreta col crimine. Fango anziché terra, cenere anziché concime. È soprattutto un film che - come si conviene a un'opera di finzione - racconta di «personaggi», uomini e donne, ragazzi e adulti travolti da un evento che modificherà la loro vita trasformandola in perdenti sotto ogni cielo. Non parlo solo delle 17 vittime della banca, né di Pinelli e Calabresi, e nemmeno del mio compagno di scuola Saverio Saltarelli, ucciso da un candelotto sparato ad alzo zero l'anno dopo, durante una manifestazione che commemorava la strage e chiedeva giustizia, credendola ancora possibile. Parlo di noi, della società che ha predisposto, del Dna inoculato alle generazioni «dopo», sfiduciate e immalinconite.
Sono stato indulgente sulla campagna stampa contro Calabresi? Ma la pressione di Lotta Continua sul commissario c'è, eccome; e così la durezza degli interrogatori. Ma né l'una né l'altra sono spinte al punto di diventare il centro emotivo del film, senza quel tanto in più che serve a eccitare gli animi e a chiedere vendetta anziché giustizia. Capite questa differenza? L'emozione è nei personaggi, nella loro crisi e solitudine, perfino nella dannazione di alcuni, i carnefici, anch'essi disperati. I ragazzi che hanno visto il film l'altra sera hanno sentito questa ferocia implicita tanto da esserne turbati. Altro che film «asettico», altro che film dove non si ritrovano «né la passione né le emozioni di quegli anni infuocati».
Quanto ai singoli passaggi della vicenda Calabresi, di cui Stajano mi rimprovera l'assenza, nulla manca degli elementi essenziali. A meno che non si voglia ancora rimettere in discussione la presenza del commissario nella stanza quando Pinelli cadde.
Nulla è taciuto sulle vere responsabilità e connessioni: neonazisti veneti manipolati e coperti dell'ufficio Affari riservati e dai servizi Usa per agitare lo spettro di un golpe. Sono proprio quelli che il film mostra in modo inequivocabile e che nella mente di chi guarda restano impressi più di qualsiasi parola scritta.
Quanto alla doppia bomba: non è questo il centro del film, vi si fa riferimento in una scena finale, certo importante e in posizione chiave, ma non esclude altre possibili letture. Ci sono molti elementi a renderla plausibile, primo fra tutti l'inedita coesistenza di un timer e di una miccia. All'epoca ne parlarono tutti i giornali, poi la miccia scomparve misteriosamente dai reperti, dalla relazione del perito e, di conseguenza, dal processo. È argomento che, con la conseguente entrata in scena di un secondo tipo di esplosivo, avrebbe potuto tra l'altro spiegare ciò che non fu evidente e comprensibile in giudizio.
Torno sull'apparentamento al libro di Cucchiarelli. Contiene cose che condivido e perciò ho utilizzato (per cui il produttore ne ha correttamente acquisito i diritti) insieme ad altre su cui non sono affatto d'accordo. In particolare: 1) che Valpreda possa esser stato il latore, anche inconsapevole, del primo ordigno; 2) che Pinelli fosse, sia pur confusamente o lontanamente, al corrente delle bombe (oltre a piazza Fontana, quella inesplosa alla Banca Commerciale); 3) che Luigi Calabresi fosse nella stanza quando Pinelli cadde (o fu fatto cadere). Il film è costruito su convinzioni e sentimenti opposti.
Sono responsabile solo delle mie convinzioni e del film che ho fatto. Sarei grato se venisse giudicato come tale anziché portavoce o ostaggio di questo o quel libro. I libri cui sono debitore, insieme ai miei sceneggiatori Sandro Petraglia e Stefano Rulli, sono stati tanti, al di là dei cavilli contrattuali. Dagli atti della Commissione stragi alla sterminata mole di incartamenti processuali, da La strage di Stato di vari autori a Una storia quasi soltanto mia di Licia Pinelli, da Mio marito, il commissario Calabresi di Gemma Capra a Piazza Fontana: una strage senza colpevoli di Luciano Lanza, da Pinelli. Una finestra sulla strage di Camilla Cederna a Il pistarolo di Marco Nozza, insieme a tantissimi altri che non ho qui lo spazio di citare. E last but not least La forza della democrazia. La strategia della tensione in Italia dello stesso Corrado Stajano che continuo ad ammirare malgrado i suoi rimproveri.
Marco Tullio Giordana