Milano, 28 marzo 2012 «È soprattutto un film sul commissario Calabresi», commenta sui titoli di coda. E più in generale: «È anche un film che sposa la tesi delle due bombe, quella anarchica a scopo dimostrativo e quella fascista devastante finite sotto lo stesso tavolo. Anche se fosse provato, questo però non cambierebbe la responsabilità della destra nel massacro».
Vedere Romanzo di una strage al cinema insieme col giudice Guido Salvini - il magistrato che nella realtà vent'anni dopo la "fine" della pellicola ha provato a ricollegare i fili sul 12 dicembre '69, con indagini sfociate in un altro processo con altre assoluzioni finali - fa uno strano effetto. Mentre sul grande schermo scorrono le immagini drammatiche dell'esplosione nella Banca Nazionale dell'Agricoltura, mentre Pinelli-Favino precipita dalla finestra della questura e Calabresi-Mastrandrea rimane steso a terra in un lago di sangue, Salvini commenta come chi ha visto da vicino tutto quello che è successo dopo e in molti casi ha incontrato o interrogato i personaggi reali.
La tesi della doppia bomba non convince fino in fondo il magistrato, che ha sempre ritenuto i sospetti sull'ex ballerino anarchico Valpreda privi di riscontri. «Però è vero che la sola gelignite della versione ufficiale forse non avrebbe potuto provocare il disastro che avvenne. E se è vero che si trovò anche un pezzo di miccia, sarebbe uno strano secondo innesco visto che certamente c'era il timer. La verità è che non è stata mai disposta una nuova perizia sull'esplosivo, quando si riaprì l'inchiesta».
Ci sarebbe ancora tempo, volendo. «Nonostante le richieste dei familiari, la procura ha ritenuto con ostinazione chiuso questo caso», ripete Salvini. L'ultima ipotesi adombrata di recente da indagini che in realtà Milano da allora non ha più riaperto davvero, riguarda la possibile presenza nella borsa neofascista che provocò la strage di vitezit, potente esplosivo simile al tritolo. Nel film emerge chiaramente che ne erano in possesso gli ordinovisti veneti Giovanni Ventura e Franco Freda, ritenuti dall'ultima sentenza «responsabili» della strage sia pur non più condannabili perché assolti più di vent'anni fa per insufficienza di prove.
Ma quello che proprio non piace a Salvini, verso la fine del film, è il flash che sembra collegare il vitezit nella mani di Ventura al ritrovamento di esplosivo in uno dei covi sotterranei di Gladio, la rete italo-americana che dal dopoguerra avrebbe dovuto proteggere l'Italia in caso di presa del potere da parte dei comunisti. «Non c'è prova per ritenere che Gladio abbia a che fare con questa storia - assicura il giudice - e invece è noto che il vitezit, in quegli anni, si poteva trovare in commercio facilmente».
Qualcosa manca nel film di Giordana. «Stranamente - osserva Salvini - non si fa alcun cenno al generale Maletti del Sid e al colonnello Labruna, che invece sono stati gli unici due condannati definitivamente per il depistaggio delle indagini sulla strage». Nel complesso Romanzo di una strage al giudice è piaciuto, e lo dice alla fine anche al regista. Gli piacciono gli attori, anche se trova la figura di Ventura «un po' macchiettistica» e lo sorprende l'accento di Freda, che nella realtà si atteggia a nobiluomo del sud «e invece nel film parla un veneto strettissimo».
Il magistrato torna a interrogarsi di fronte alla morte di Pinelli che ancora rimane un mistero: «Perché nessuno li ha mai più cercati i poliziotti e il carabiniere che stavano nella stanza? Che fine hanno fatto?». E anche prima, quando compare il finto compagno Andrea, il poliziotto Salvatore Ippolito infiltrato nel gruppetto romano di Valpreda, Salvini domanda: «Perché nessuno è mai andato a Genova a interrogarlo? Lui è ancora là».
Poi ci sono i momenti del film in cui il regista immagina come possano essere andati i colloqui tra i protagonisti della vicenda. Quando Gifuni-Aldo Moro parla con il presidente della Repubblica Saragat e rinuncia a divulgare la controinchiesta sulle responsabilità di destra e apparati statali sulla strage - purché altri settori la smettano di soffiare sul fuoco - il giudice annuisce: «É probabile che si siano detti quelle cose. Questo è un pezzo politico molto serio». Una bella immagine. Come quella di Pinelli e Calabresi alla Feltrinelli mentre si scambiano un libro. «In pubblico non avvenne, ma se fosse successo, probabilmente sarebbe andata proprio così...».