Ecco un fantasma che riemerge dalle paludi della storia e dai nostri incubi più angosciosi, dall'era delle stragi, dai tempi bui della Prima Repubblica: si chiama Franco Freda e il suo nome lo ricordiamo in tanti associato a quello di Giovanni Ventura, morto pochi giorni fa a Buenos Aires. Freda, uno dei marchi di fabbrica della Strategia della tensione - bombe e sangue intessuti dall'estrema destra con la complicità di importanti pezzi dello Stato per destabilizzare il paese - è stato intervistato da un collega del Gazzettino a Castelfranco Veneto; salito dalla Puglia, dove fa l'editore, per partecipare al rito funebre dedicato al "vecchio" camerata.
In chiesa, seduto in quinta fila, accanto alla sua collaboratrice Anna Valerio, silenzioso. Velenoso. E non si smentisce, non rinnega, nonostante le condanne e il carcere, mostra coerenza feroce, nient'altro che questo. Ma per Ventura, in suo onore, rompe una lastra di ghiaccio e quasi se ne scusa, dice che da decenni non entrava in una chiesa: «pagano, profondamente anticlericale, non condivido nulla di quel che ha detto il celebrante». E fin qui sono affari suoi. Gli affari nostri stanno in quel che aggiunge. A cominciare da ciò che dice in memoria del defunto: «E' stato un grande miliziano che ha combattuto dietro le linee nemiche una battaglia contro il male estremo della democrazia. Giovanni ha inferto gravi perdite al nemico con le nostre milizie». Parla di "linee nemiche" e della democrazia come "male estremo", milioni di italiani erano le linee nemiche, alcuni di loro, coraggiosi difensori della libertà, sono stati fatti a pezzi da quelle milizie; quasi tutti gli altri sono stati sbattuti da questa ferocia in un clima livido di ricatti, intimidazioni e ancora sangue. Non condivide il ricorso al termine "camerata": "La parola «camerata» non mi appartiene, ma se usata in senso bellico, allora mi va bene: eravamo camerati in quel senso ma è meglio dire miliziani": era una guerra, vorrebbe lasciare intendere. Assolti nell'ottantasette al processo per la strage di Piazza Fontana, sono stati condannati a quindici anni per altri 21 attentati e lo stesso Freda si portò a casa anche una condanna per "istigazione all'odio razziale". L'antisemitismo non gli difetta.
L'intervistatore gli ricorda che la Cassazione ha loro attribuito la responsabilità di aver organizzato e diretto a Padova "Ordine nuovo" e così commenta: "Lei parla di magistrati, per me sono 'minus-strati'. Non c'è modo per esprimere il mio disprezzo per chi ha redatto quella sentenza «morale e storica» per noi che eravamo stati assolti in via definitiva già nel 1987. Nessuno può essere condannato dopo una sentenza definitiva". Così, eccolo lamentarsi per come ha funzionato, secondo lui, la giustizia italiana nei suoi confronti, e cioè uno dei pilastri di quella democrazia che ha combattuto e, evidentemente, ancora combatte come male assoluto. Ma se lo è, che senso ha prendersela con le sue dinamiche? "L'autorevolezza del sistema giudiziario è sotto gli occhi di tutti, non serve esprimere lo sdegno. Avessero potuto mi avrebbero attribuito anche l'uso di armi nucleari...": par di sentir parlare qualcun altro, più celebre di Freda in questo paese.
Ed è a questo punto che il miliziano lancia un avvertimento mentre indica una "successione" in questo suo sordo attacco alla democrazia; sta riflettendo sulla verità ancora nascosta a proposito delle stragi di Stato: "Chi formula tali teoremi parla di verità, ma in realtà non la cerca, vuole solo coltivare il proprio interesse. Io fin dall'adolescenza mi sono riconosciuto in un'idea del mondo radicalmente ostile alla democrazia, ovvero all'egualitarismo, ossia al cristianesimo, dunque alla modernità e alla decadenza: ora spero di avere due eredi che porteranno avanti la mia battaglia che è stata anche quella di Ventura...altri continueranno la nostra battaglia". Ma non fa nomi.