«Questa è la storia di un abbraccio» «Un abbraccio che non è mai stato». Queste le due frasi che aprono e chiudono Non mi uccise la morte (ed. Castelvecchi, pp. 112, euro 12) di Luca Moretti e Toni Bruno. La storia di questo abbraccio mancato è quella di Stefano Cucchi, il ragazzo di poco più di trent'anni fermato al Parco degli Acquedotti da una pattuglia dei Carabinieri il 15 ottobre del 2009, portato in carcere e morto il 22 ottobre per le percosse subite e le mancate cure ricevute. Una storia che Moretti e Bruno trasferiscono nel linguaggio che da qualche anno ormai sembra essere diventato più efficace di qualsiasi cronaca scritta o filmata: il fumetto. Il libro, accompagnato da un saggio di Cristiano Armati sulle vittime dell'Ordine Pubblico in Italia, ripercorre quei sei giorni dalla notte dell'arresto alla morte di Stefano Cucchi. E lo fa in modo letterario, poetico a tratti più che cronachistico anche se spesso le parti più dure non sono purtroppo frutto di fantasia ma le più aderenti ai fatti.
Quella di Stefano è una storia che riguarda tutti noi ed è la storia di tanti. Ma, a differenza di tanti, Stefano aveva una famiglia, una sorella coraggiosa, dei genitori che non si sono arresi e che sono riusciti a sfondare il muro dell'indifferenza. E c'erano e ci sono delle foto. Soprattutto delle foto. Che erano e sono qualcosa di più di un semplice pugno allo stomaco. Che riescono quasi a far impallidire le immagini delle torture di Abu Ghraib e come quelle ci interrogano su quale sia la dimensione dell'orrore di cui sono capaci il Potere, l'Autorità, l'Ordine e i suoi servitori. Che riescono a non far girare per l'ennesima volta la testa perfino a una società anestetizzata e assuefatta a forza di orrori serviti nei tg all'ora di pranzo tra le notizie di gossip, calcio e moda. Chissà, se non ci fossero state quelle foto e quella famiglia che non si è arresa e che ne ha consentito la pubblicazione se oggi, a quasi sei mesi dai fatti, parleremo ancora di Stefano Cucchi. Chissà, se la famiglia di Stefano avesse sbagliato qualche mossa nel chiedere la verità a uno Stato che gli ha ammazzato il figlio - una verità che ancora manca - se ci sarebbe traccia di quell'imbarazzo che ha messo a tacere quasi tutti per una volta.
Quasi tutti. Perché non si possono e non si vogliono scordare le disonorevoli parole dell'onorevole Carlo Giovanardi a commento della vicenda: Stefano Cucchi è morto perché anoressico, drogato e sieropostivo. Le sue tardive scuse alla famiglia suonarono quasi più irritanti delle parole pronunciate. Certo, nella lunga lista delle responsabilità, dirette e indirette, colui che ha dato il nome insieme a Gianfranco Fini alla più ignorante e dannosa legge sulle "droghe" ha il suo bel posto. Ma forse non basta neanche questo a giustificare la minima mancanza di sensibilità del cattolico difensore della famiglia Giovanardi. E comunque, nonostante la sua legge abbia portato in carcere Stefano Cucchi per quei venti grammi di hashish, da quel carcere sarebbe dovuto uscirne vivo. Un'ovvietà in un Paese "civile". In un Paese che non è questo di certo. Perché la storia di Stefano è la storia di tanti. Tantissimi. Qualcosa che non dovrebbe succedere mai e che invece, raccontano i rapporti delle realtà associative che si occupano di carcere, accade con una frequenza impressionante. Numeri, persone, che non trovano spazio nei giornali e figurarsi nei telegiornali. Qualche trafiletto, a volte, nelle cronache locali e nulla più. Per quel sottotesto tanto caro a chi esercita e difende l'Autorità dei "buoni che non hanno da temere" e dei "cattivi che se gli capita qualcosa in fondo se la sono andata a cercare" (come disse in fondo Giovanardi). La tattica di questo potere è sempre la stessa: autoassolversi, coprirsi a vicenda finché è possibile, discreditare la vittima e difendere il carnefice, dell'aspettare che la bufera passi. E nel caso non bastasse, tirare fuori la storia delle mele marce, dei pochi casi isolati che comunque non mettono in discussione il Sistema. Lo abbiamo visto con il pestaggio a morte di Federico Aldrovandi, con Aldo Bianzino, Gabriele Sandri, solo per citare alcuni dei molti "casi" che tracciano un quadro che nulla ha dell'episodico, dell'eccezionale. Alcuni di quei "casi" che hanno un nome, un cognome, una famiglia o degli amici a chiedere la verità. Si può soltanto tentare di immaginare quante storie sconosciute riguardino le vite di migranti o persone "emarginate". Può la storia di Stefano essere d'aiuto a cambiare lo stato delle cose? E' una domanda difficile e la voglia di cedere al pessimismo è forte e confermata dai tanti "mai più" pronunciati e traditi dai fatti. Certamente è doveroso continuare a raccontarla e continuare a chiedere la verità.