A vent'anni di distanza la procura di Palermo fa luce sull'assassinio di Mauro Rostagno. Il dirigente di Lotta continua fu ucciso dai corleonesi intimoriti dalle sue inchieste. Su tutte quella relativa al traffico di armi in Somalia gestito da mafia e servizi segreti.
Antonio Ingroia, magistrato palermitano, ha trovato la prova che mancava: il proiettile che uccise Rostagno era un proiettile di Cosa Nostra.
La notizia, attesa da vent'anni, è di quelle che ti fanno riappacificare con la giustizia: «Gli assassini di Mauro Rostagno saranno chiamati a difendersi nei prossimi mesi di fronte alla Corte di Assise di Trapani». A rivelarlo è Enrico Deaglio con un'ampia inchiesta pubblicata sull'ultimo numero di Diario, numero da oggi in edicola.
Il merito va ad Antonio Igroia, il magistrato palermitano che non ha mai mollato la presa e, dopo dodici anni di inchiesta, ha chiesto il rinvio a giudizio per Vincenzo Virga organizzatore dell'agguato al giornalista torinese che, pare, fu commissionato da Totò Riina in persona.
Sembra proprio che questa volta il Pm Ingroia, abbia una prova definitiva, «una prova decisiva» grazie alla quale si farà finalmente luce su una vicenda caratterizzata da depistaggi, veleni e manovre oscure. Una vicenda simbolo di quella fitta rete di misteri che caratterizza il nostro Paese.
Ma andiamo con ordine, partiamo da quel 26 settembre del 1988, la notte in cui Mauro Rostagno fu assassinato con quattro colpi di fucile calibro 12 e due colpi di pistola calibro 38 special.
Da quel giorno in poi l'indagine si mosse in tutte le direzione tranne che in quella del delitto di mafia. Tranne che nel sentiero oscuro e insanguinato di Cosa nostra. Del resto Rostagno era diventato un vero "rompicoglioni". Si era messo in testa di fare il giornalista e lo fece come una missione: «Ho scelto di non fare televisione seduto dietro a una scrivania - scriveva al suo vecchio compagno Renato Curcio - ma in mezzo alla gente, con un microfono in pugno mentre i fatti succedono». E fu quel suo vizio, il vizio di spulciare tra le pieghe di quella Sicilia martoriata dalla mafia, la sua condanna a morte.
La storia di Rostagno è nota, e nel suo lungo articolo Enrico Deaglio la ripercorre tutta. Mauro Rostagno, finito il suo tormentato pellegrinaggio intellettuale e spirituale - dalla facoltà di Sociologia di Trento al viaggio in India - nel 1987 approda in Sicilia dove fonda la comunità Saman per tossicodipendenti e alcolisti. Insieme a lui Chicca Roveri, sua moglie, e quel Francesco Cardella che aveva conosciuto in India.
«In quello stesso anno - racconta ancora Deaglio - Mauro entra per la prima volta negli studi televisivi di Rtc, una piccola emittente privata». Nel giro di un anno diventa il personaggio televisivo più noto in città. Questa la giornata tipo del Rostagno giornalista: «Otto di mattina, lettura dei giornali; poi primo giro con le telecamere: si fa il giro per raccontare i cumuli dei rifiuti che non vengono raccolti. Si da notizia delle denunce dei cittadini e delle inchieste: dalla scoperta delle logge massoniche, alle malversazioni amministrative. Infine si intervistano i magistrati più impegnati, per esempio Paolo Borsellino, procuratore di Marsala».
Una presa diretta su Trapani che infastidiva, faceva schiumare rabbia a tutti coloro che agivano nell'ombra e che non avevano certo bisogno di una telecamera sguinzagliata tra le procure e tra i vicoli più bui della città. «Quarchi vota ch'attapanu 'u musu», prima o poi gli tappano la bocca, ripetevano consapevoli i più avvertiti.
Nel 1988 arriva il giorno dello scoop: con una piccola telecamera si piazza dietro le piste di decollo e atterraggio di Kinisia (ex aeroporto militare poco lontano da Marsala). «Alla luce del tramonto - racconta Deaglio - filma un C130 dell'Aeronautica italiana che scarica casse di medicinali e carica casse di armi dirette in Somalia. E' convinto di aver raggiunto un grande tassello all'ipotesi che da Trapani mafia e servizi segreti gestiscano un traffico di armi e droga». Va a Palermo per informare Giovanni Falcone e cerca contatti anche con il Pci. Sa bene che quella che ha in mano è roba che scotta.
In quei giorni Angelo Siino, fiduciario di Cosa Nostra, sa già che contro Rostagno c'è una condanna a morte. E allora va dal proprietario della Tv consigliandogli di farlo smettere: "Ho cercato di non farlo uccidere", confiderà in seguito a un magistrato.
«Alla fine cosa nostra - continua Deaglio nel suo lungo articolo inchiesta - commissiona l'omicidio di Rostagno al capomafia di Trapani Vincenzo Virga. La data prescelta è il 26 settembre. Alle 21 è già buio e ancora più buio è il tratto di strada sterrata che Rostagno deve percorrere alla guida della sua Fiat Duna. Accanto a lui c'è Monica Serra una ragazza della comunità che lavora con lui a Rtc. Nel frattempo un tecnico Enel, Vincenzo Mastrantonio, che di secondo lavoro svolge l'attività di autista del capomafia Virga, ha provveduto a spegnere l'illuminazione della zona».
E' il momento dell'agguato: una Fiat Uno tampona l'automobile di Rostagno. I killer iniziano a sparare. Rostagno è colpito da otto colpi in testa e alla schiena. All'obitorio di Trapani, dove giace il cadavere martoriato, i carabinieri diffondono la notizia che in macchina Mauro aveva un rotolo di dollari e due siringhe di eroina.
Di certo c'è solo che qualche tempo dopo Vincenzo Mastrantonio viene trovato cadavere nelle campagne di Lenzi. «Parlava troppo». Nel 1996 accade quello che nessuno si aspettava: «Il procuratore di Trapani Gianfranco Garofalo convoca, gioisco e spavaldo una conferenza stampa per annunciare la soluzione del "caso Rostagno". Il delitto, secondo la sua inchiesta, è maturato dentro la comunità Saman per gelosie, adulteri, traffico di droga e ammanchi finanziari». Quindi manda in galera la moglie Chicca Roveri, accusata di essere l'organizzatrice del delitto, e Monica Serra, la ragazza scampata all'agguato sarebbe infatti una complice. Poi l'annuncio finale: «Bisognava capirlo dall'inizio - dichiara il procuratore Garofalo - Si doveva poter escludere il coinvolgimento di Cosa nostra che del delitto non voleva e soprattutto non doveva essere gratuitamente incolpata». Le ipotesi del Pm crollano però in breve tempo. Nel frattempo pentiti affidabili e di primo piano, tra questi un "certo" Giovanni Brusca, attribuiscono alla mafia l'organizzazione del delitto.
Le carte arrivano infine ad Antonio Ingroia. Dopo dieci anni di indagini il Pm siciliano riesce a trovare la prova definitiva. La traccia è in un bossolo esploso la notte del 26 settembre del 1988. Un segno inequivocabile: quel colpo è stato esploso da una pistola di mafia.