Era più buio del solito, in quella stradina di campagna in contrada Lenzi, ai piedi del Monte Erice. Era il 26 settembre del 1988, Trapani era molto diversa: non accoglieva ancora i visitatori con il cartello "La città della vela", aveva appena cominciato a espandersi a suon di palazzoni nella periferia e c'erano ben tre reti locali. Una di queste era la combattiva Rtc. Da quei microfoni, un carismatico giornalista milanese lanciava accuse contro la mafia e gli imprenditori e i politici conniventi. Si chiamava Mauro Rostagno, e stava attraversando quella "trazzera" accompagnato dalla collaboratrice Monica Serra, proprio quella notte. Monica era una delle ragazze della comunità per tossicodipendenti Saman, co-fondata dal poliedrico Rostagno. Ed è proprio lì che stavano per arrivare: avevano lasciato poco prima la sede di Rtc, e si erano addentrati in quell'insolito buio. La Fiat Duna bianca di Mauro passa affianco ad una golf parcheggiata su un lato. Una Fiat Uno supera l'auto di Rostagno e gli taglia la strada. Alcuni uomini, forse addirittura sette, circondano l'auto. È un agguato: Rostagno spinge istintivamente Monica sotto il cruscotto, e muore ucciso da due colpi di una calibro 38. Tra le armi, anche due fucili, che esplodono dei colpi che (quasi miracolosamente!) non colpiscono la Serra, circostanza che porterà in futuro a dubitare della testimonianza della giovane. Prima di scappare, i killer hanno il tempo di sfondare con il calcio del fucile il finestrino posteriore lato guidatore, rovistare nella borsa che Mauro teneva sempre con sé, e prendere qualcosa. E nelle stesse ore, qualcuno rovistava nel suo ufficio a Rtc, sempre alla ricerca di qualcosa. Che cosa? È un mistero. È uno dei tanti misteri che porta a dubitare della tesi dell'agguato mafioso. Nonostante a sparare (è stato confermato di recente) siano state delle armi già coinvolte in almeno un'altra aggressione firmata Cosa Nostra, quella del giovane poliziotto Giuseppe Montalto, per la quale è condannato all'ergastolo il killer Vito Mazzara. A rivelarlo, è una nuova perizia balistica, disponibile dopo il prolungamento di sei mesi delle indagini dopo il rischio archiviazione di qualche mese fa. E in effetti, di mano mafiosa, si parlò subito. Era inevitabile, quasi scontato: fino a quella sera stessa, Rostagno si era scagliato contro Cosa Nostra, condannando gli omicidi del giudice Saetta e del figlio Stefano, ad Agrigento. E in effetti la mafia trapanese, in quegli anni sotto il comando del boss Vincenzo Virga, 12 giorni prima non aveva esitato a eliminare un magistrato in pensione, Alberto Giacomelli. Chicca Roveri, la compagna di Rostagno, dichiarò poche settimane dopo l'omicidio che la pista da battere era quella mafiosa, e che ogni altro tentativo, da parte di alcuni, di trovare altri moventi faceva "parte di un disegno colluso, interessato, fiancheggiatore della piovra". Di mafia parla l'allora capo della mobile Rino Germanà. Lo sostiene la Procura di Palermo, che ha virato le indagini su quelle tracce piuttosto che sulle altre ipotesi allora battute a Trapani. Anche i pentiti parlano di mafia, da Angelo Siino a Giovanni Brusca: ma non sono ritenuti affidabili. Lo dice lo stesso pm Antonio Ingoia, che oggi segue il caso: "C'è un collaboratore di giustizia, ad esempio, che dice che Virga non ne sapeva nulla. Anzi, a suo dire il boss era rimasto contrariato dalla vicenda perché avrebbe attirato le attenzioni su Trapani". Però proprio intorno a Virga e ai suoi uomini poggia la tesi mafiosa. In particolare su Vincenzo Mastrantonio, tecnico dell'Enel nella contrada Lenzi, e soprattutto, autista del boss. Potrebbe essere stato lui a staccare la luce nella zona la notte dell'agguato. Anche se, stando agli atti ufficiali, erano state delle infiltrazioni d'acqua dovute alla pioggia ad avere mandato in corto circuito la centralina. Peccato che a Trapani non piovesse da parecchi giorni, e peccato che Mastrantonio fu trovato morto otto mesi dopo quel 26 settembre. E la Uno, venne trovata abbandonata e bruciata pochi giorni dopo. Tutto secondo il copione.
Ma qualcosa non quadra. Troppe persone, presenti e a sparare: non coincide con il modus operandi di Cosa Nostra. Così come è strano che la Serra sia stata lasciata viva "perché non interessavo a nessuno", come disse lei stessa. E secondo l'allora comandante dei carabinieri a Trapani Nazzareno Montanti, a gestire l'agguato non erano stati dei professionisti: un fucile scoppia in mano a uno dei killer, si crea confusione, viene scelta una strada più trafficata rispetto a quelle percorse fino a pochi minuti prima dalla Duna bianca.
Negli anni, si faranno tante altre ipotesi, legate a filo doppio con il complesso passato di Mauro Rostagno. Nato a Torino nel '42, gira il mondo, fa mille professioni, conquista donne. Studia sociologia, a Trento, ed è uno dei fondatori dell'Università della contestazione con Renato Curcio. In seguito diventa uno dei leader e degli ideologi di Lotta Continua con Adriano Sofri prima, e uno degli animatori dello storico centro sociale "Macondo" di Milano, dopo. A fine anni '70, un viaggio spirituale alla corte del santone Bhagwan Shree Rajneesh Osho lo fa entrare nel movimento dei pacifisti "arancioni": un'esperienza che lo porterà a fondare una delle prime comunità per tossicodipendenti in Italia, insieme alla compagna Chicca Roveri e al "guru" Francesco Cardella.
Una vita, quella di Rostagno, che offre tanti spunti, anche per le teorie intorno ai mandanti del suo omicidio. Per anni, ha tenuto banco l'ipotesi di una resa dei conti interna agli ex-militanti di Lotta Continua. Leonardo Marino, uno che secondo Rostagno "a Lc non contava niente", si era autoaccusato dell'uccisione del commissario Luigi Calabresi, e aveva tirato in ballo alcuni membri, tra cui il giornalista di Rtc. Ma l'ipotesi di un omicidio voluto dai vecchi compagni è stata considerata sempre meno credibile col passare degli anni, nonostante si leghi all'idea che a sparare non siano stati dei killer professionisti della mafia. È la stessa considerazione alla base di un'altra ipotesi, che riteneva che il delitto fosse maturato all'interno della Saman, in particolare con la regia occulta del trapanese Cardella. Editore di porno capace di pubblicare anche Bulgakov e Marquez, confidente e sostenitore di Bettino Craxi, faccendiere, truffatore. Una persona facilmente descrivibile come inaffidabile, ma per anni "il miglior amico di Rostagno", come dice lui stesso. Si teorizzarono diverse motivazioni, tutte riconducibili a Francesco Cardella: un delitto passionale, la necessità di fare fuori l'amico per scappare con il malloppo delle donazioni alla comunità, segreti scoperti da Rostagno che dovevano restare tali. Cardella rimase per anni latitante in Nicaragua, e quando tornò, non aveva granché da raccontare se non la sua idea sulla pista mafiosa e gli aneddoti dei pomeriggi ad Hammamet con Craxi.
Ma c'è un altro retroscena, nel caso Rostagno, che prende sempre più piede. E che tutto sommato, potrebbe coincidere con le scoperte recenti che spingono verso la pista mafiosa. Si tratta di un intreccio che coinvolge, oltre al sociologo, la reporter del Tg3 Ilaria Alpi, i servizi segreti deviati, i massoni della potente loggia Iside2 di Trapani, la base della Gladio "Scorpio" nella città, e un traffico d'armi tra l'Italia e l'Africa. Un corridoio che passava dal piccolo aeroporto della Gladio a Kinisia, vicino Trapani, e che secondo il collega e amico di Rostagno Sergio Di Cori, sarebbe stato immortalato da Mauro pochi mesi prima della sua uccisione. Immagini di aerei militari, o elicotteri, che scaricano riso e farmaci e caricano kalashnikov e mine. Armi da regalare ai signori della guerra della polveriera africana, in cambio di terra; sotto la quale nascondere rifiuti tossici e scorie industriali provenienti da mezza Europa. Lo stesso scoop che nel 1994 avrebbe portato all'omicidio della Alpi e del cameraman Miran Hrovatin.
Mauro, dice Di Cori e dicono altri testimoni sentiti dall'allora procuratore , non si separava mai da quella videocassetta. Anzi, avrebbe anche detto di avere un grosso scoop per le mani. Voci dicono che ne abbia parlato anche con il magistrato Giovanni Falcone. Una verità scomoda tra le mani di un uomo scomodo. Una delle tante verità custodite da un giornalista che avrebbe potuto "far tremare l'Italia" (come pare abbia detto) e che è stato zittito: di quella cassetta, sempre che esista, non ci sono tracce. Che sia stata presa dai killer? Che sia quello l'oggetto rubato dal sedile posteriore della Duna e cercato nel suo ufficio? Che gli interessi della mafia e dei fantomatici "poteri occulti", come troppo spesso pare, abbiano coinciso con la morte di Rostagno?
Non ci è dato saperlo. I familiari, gli amici, i conoscenti, e chi porta ancora avanti il ricordo e le lotte di Rostagno (come Libera e l'associazione Ciao Mauro), di volta in volta propongono iniziative per ricordarlo o per stimolare la magistratura. Sullo sfondo, una città complessa e sfaccettata come Trapani, che troppo spesso, però, avverte la mancanza delle strigliate di quel giornalista del nord che tanto aveva capito dei siciliani.
Marco Rizzo
NOTA: Pubblicato su L'Isola Possibile n.52 del maggio 2008