Un riconoscimento in aula non è una prova provata e tanto meno una sentenza di condanna, però fa una certa impressione leggere nei resoconti d'agenzia e su pochissimi quotidiani (delle tv nemmeno merita parlare) che una testimone tedesca ha riconosciuto in Francesco Gratteri, attuale questore di Bari, il dirigente in giacca e cravatta, ma anche casco e manganello, che dava ordini all'interno della scuola Diaz nella fatale notte del 21 luglio 2001.
Fa impressione per molti motivi. Il primo è che finora il dirigente aveva sostenuto di non avere avuto alcun ruolo nella nota perquisizione, pur essendo all'epoca il capo dello Sco, che per i non addetti ai lavori è il coordinamento delle squadre mobili di tutta Italia. Quella notte - secondo quanto riferito dallo stesso Gratteri ai pm durante l'inchiesta - il nostro questore si sarebbe limitato a stazionare nel cortile della scuola, guardandosi bene dall'impartire ordini a chicchessia. I magistrati non gli hanno creduto, ritenendo che il capo di tutte le squadre mobili d'Italia non poteva essere un mero spettatore passivo in un'operazione - clamorosa quanto delicata - condotta per l'appunto da agenti in servizio nelle squadre mobili di varie città italiane. La testimone tedesca ora pare smentire Gratteri anche sul piano dei fatti: ha riferito che dava ordini, che impose a lei e altri malcapitati, appena usciti dalla "tonnara", di presentare i documenti e tenere gli occhi bassi. Stando a questa testimonianza, Gratteri avrebbe mentito sul comportamento tenuto quella notte.
Un altro motivo di sconcerto, di fronte a queste notizie, è l'assoluta mancanza di reazioni, commenti, prese di posizione. Per questioni molto meno importanti - come un battibecco in tv, la dichiarazione di un "impresentabile" e cose del genere - le agenzie di stampa vomitano dichiarazioni, espressioni di sdegno, atti d'accusa, distinguo e precisazioni. In questo caso niente. Nessuno - fra i tanti politici collegati in tempo reale con le agenzie di stampa e pronti a diffondere note e interventi - che abbia pensato di sottolineare l'imbarazzante posizione del dottor Gratteri, acuita dalla nuova testimonianza.
Gratteri, va ricordato, è il dirigente di grado più alto fra i 29 imputati per i fatti della Diaz, e nei mesi scorsi è stato nominato questore in Puglia, pur dovendo comparire in aula per un processo riguardante fatti ormai accertati, cioè la "perquisizione" alla Diaz realizzata pestando a sangue decine di persone, per poi arrestarle sulla base di prove false. I fatti, com'è noto, sono questi e nemmeno gli imputati osano negarlo. Il dottor Gratteri, come i suoi 28 colleghi, si è finora distinto per avere disertato tutte le udienze tenute a Genova dal novembre scorso. Ha così evitato di ascoltare decine di testimoni mentre raccontavano con precisione e senza contraddizioni i fatti avvenuti la notte del 21 luglio. Dev'essere rimasto a Bari a gestire l'ordine pubblico, che è certo un impegno gravoso.
Ma non sembra meno importante, per chi ricopre incarichi così alti ed è considerato uno dei maggiori dirigenti della polizia di stato, onorare le istituzioni presenziando alle udienze di un processo così importante. Non è questa, tuttavia, l'opinione di politici, osservatori, giornalisti, commentatori: sono rimasti tutti in rispettoso silenzio.
Un giorno, fra qualche mese, quando sarà chiamato in tribunale, sapremo dalla viva voce del dottor Gratteri, per un giorno distolto dalla cura dell'ordine pubblico nella città di Bari, la sua versione su quanto accaduto quella notte. Sapremo che cosa faceva un così alto dirigente nel cortile della scuola a perquisizione in corso, pur non avendo alcun ruolo operativo; sapremo che cosa risponderà ai pm che gli chiederanno conto dei pestaggi, degli arresti motivati col possesso di molotov portate nella scuola dalla stessa polizia, del riconoscimento della testimone tedesca e di altre cose ancora. Poi i giudici decideranno.
Ma è bene che sappiamo che la dignità della democrazia è già stata calpestata senza rimedio: in un paese "normale" dirigenti imputati per fatti così gravi (e così chiari) non sarebbero mai stati promossi, anzi si sarebbero dimessi, e avrebbero partecipato a tutte le udienze, per rispetto dei giudici, dello stato, delle proprie divise. Nello stesso paese normale il processo sarebbe seguito con apprensione e sete di giustizia da tutti i media e dall'opinione pubblica di ogni tendenza, e non - come ora avviene - da un paio di quotidiani nazionali (oltretutto considerati "estremisti", quindi stravaganti: il Manifesto e Liberazione) e dai giornali locali, come fosse una piccola vicenda di malavita genovese.
Sappiamo e non da ora che il nostro non è un paese "normale": quel che sorprende è che il processo in corso a Genova, in quanto snobbato e vissuto come un piccolo inutile fastidio, rischia paradossalmente di allontanarci ancora dalla sponda delle democrazie compiute, nonostante la tenacia dei pm e la generosa perseveranza di tanti giovani testimoni, molti dei quali sono venuti dall'estero nonostante la comprensibile tentazione di mandare tutto al diavolo: l'Italia, le sue forze di polizia, la sua ipocrita classe politica. Un giorno, comunque vada, dovremo trovare il modo di ringraziarli.