Rete Invibili - Logo
"La giustizia non cancella la vergogna"
Wanda Valli
Fonte: Repubblica Genova, 4 gennaio 2014
4 gennaio 2014

C'ERA anche lui, Lorenzo Guadagnucci, giornalista di Bologna, tra i ragazzi e le ragazze della Diaz. Loro che, nella notte tra il 20 e il 21 luglio del 2001, mentre dormivano, subirono quella che poi Michelangelo Fournier, capo del primo reparto Mobile di Roma, definì «una macelleria messicana». Un assalto studiato a tavolino, con prove false, portate dentro la scuola di via Battisti da chi avrebbe dovuto difendere l'ordine pubblico. Adesso chi allora aveva le responsabilità maggiori è stato condannato a scontare il residuo di pena in carcere: da Spartaco Mortola, nel 2001 capo della Digos di Genova a Francesco Gratteri, ex direttore dell' Anticrimine, Giovanni Luperi, allora vicedirettore dell'Ucigos. E le vittime? Guadagnucci non gioisce, crede, che lo Stato non abbia mai voluto davvero fare chiarezza.

Lorenzo Guadagnucci, alti dirigenti della polizia nel G8 costretti agli arresti domiciliari. Soddisfatti?

«Lo strumento dell'arresto non fa piacere per nessuno, né è una decisione che mi ha suscitato particolare gioia. Gli imputati avevano, in qualche modo, messo in conto un esito del genere, perché non hanno mai chiesto scusa, dimostrando, così, di non aver accettato le sentenze. Ora hanno quello che dovevano avere, ma certo non è una bella notizia ».

Perché?

«Non è una bella notizia che personaggi così importanti con una storia professionale illustre, siano stati condannati a scontare il residuo di pena ai domiciliari. E' come se avessero rifiutato la giustizia, tanto è vero che il Tribunale di sorveglianza ha confermato che in loro non c'è rispetto per le vittime, per una città intera, Genova ».

Lei era là quella notte, ha vissuto i processi come testimone, cosa ha pensato subito, di questa clamorosa, decisione?

«Come cittadino credo che, in tutto il caso G8, le persone da portare a esempio siano i magistrati che hanno condotto l'inchiesta. I pm Zucca e Cardona Albini sono stati rigorosi, non hanno ascoltato i messaggi che arrivavano dappertutto. E a loro va reso merito. Le altre istituzioni continuano ancora a volgere lo sguardo altrove, a partire dal Parlamento».

E da una commissione di inchiesta che non è mai arrivata. Il ricordo di quelle ore di "macelleria messicana"?

«Io l'ho chiamata "la tonnara", e che cosa è successo si sa, purtroppo il nostro ruolo di parti civili è stato minimizzato, quasi escluso».

Che cosa volevate dal processo? Risarcimenti?

«Di quelli, sinceramente, mi importa poco. Volevamo difendere la Polizia di Stato: se i dirigenti coinvolti fossero stati sospesi, e non avanzati in grado, sarebbe stato meglio, piuttosto che arrivare a un finale con arresti, sospensione dai pubblici uffici».

Ora che cosa si aspetta?

«Mi auguro che il ministro degli Interni provveda a fare chiarezza con provvedimenti disciplinari».

Le vostre sono state e restano vite spezzate?

«I traumi rimangono, tutti. Ma in noi resta anche la rassegnazione verso uno Stato che si rifiuta di stare dalla nostra parte. Al di là dei magistrati, la responsabilità è del Parlamento, del governo: aspetto ancora che qualcuno mi prenda sul serio, neppure dopo le condanne definitive, qualcuno ha mosso un dito. Ne prendo atto».

Dopo tredici anni finisce così?

«Io non posso fare altro, vorrei solo che quello che è successo non si ripetesse, che chi lavora in polizia avesse una dirigenza all'altezza di un lavoro difficile. Gioia? Non è una buona notizia, ribadisco, se qualcuno va in galera. La magistratura, in realtà, non ha né vinto né perso, ha fatto solo il suo lavoro. E' lo Stato che non si muove, che non ha rimorsi, anzi ».