Ci sono argomenti, a volte aree tematiche anche ampie, che i grandi media affrontano con imbarazzo e perciò cercano di aggirare, minimizzare, perfino occultare le notizie che ne scaturiscono. La materia "forze dell'ordine" è fra queste. Polizia, carabinieri, servizi segreti sono per i giornalisti fonti privilegiate di notizie, come ben sanno i cronisti delle redazioni di provincia, le grandi firme nazionali di giudiziaria e anche quelli che un tempo erano definiti inviati di guerra e che oggi sarebbe meglio chiamare inviTati di guerra, visto che il giornalismo embedded per le guerre odierne, anzi per le missioni di pace odierne, è la regola e non l'eccezione.
In questi anni le forze dell'ordine italiane, e in particolare il corpo di polizia, hanno vissuto una vicenda molto dolorosa e molto grave: le ingiustificate violenze contro cittadini indifesi e l'incredibile serie di falsi e di calunnie attuate durante il G8 di Genova. Sia le violenze di quel tragico luglio del 2001 sia il clamoroso ostacolo frapposto all'azione della magistratura negli anni seguenti, saranno indicati un giorno nei manuali di storia come il punto più basso toccato da un apparato di sicurezza in un paese democratico.
Per la prima volta in epoca repubblicana i tribunali hanno condannato in via definitiva un numero consistente di funzionari e dirigenti di polizia, nonostante i depistaggi e i tentativi reiterati di bloccare i processi e indurre i giudici a non andare fino in fondo, tentativi che sono stati plateali e sostenuti in modo bipartisan dalle forze politiche che si sono alternate alla guida del paese dal 2001 in poi.
Ai giornali mainstream però gli esiti di questi processi non sono piaciuti granché, soprattutto per un motivo: le condanne - con relativa interdizione dai pubblici uffici e conseguente allontanamento dagli incarichi - hanno colpito altissimi dirigenti che le grandi firme dei giornali italiani consideravano e probabilmente ancora considerano "amici".
Per averne un'evidenza, basta andare a spulciare le cronache pubblicate sui maggiori quotidiani - diciamo Corriere, Repubblica e Stampa - del 6 luglio 2012, all'indomani cioè della sentenza definitiva di Cassazione del processo Diaz. Accanto agli articoli di cronaca sulla sentenza, comparivano valutazioni o "reazioni" che riportavano le deboli autodifese dei condannati o addirittura le loro inconsistenti chiamate di correità rispetto all'unico dirigente di polizia che aveva osato testimoniare in tribunale e dire la verità, il tutto con la compiacenza dei giornalisti, che omettevano di ricordare al lettore quanto fossero prive di fondamento quelle valutazioni.
Omesso anche il fatto che gli imputati avevano scelto di non proporre simili obiezioni in tribunale, preferendo la via - tutt'altro che rispettabile, trattandosi di alti dirigenti di polizia - offerta dal codice con la facoltà di non ripondere concessa agli imputati.
Le più che clamorose condanne del 5 luglio 2012, di fatto la decapitazione del vertice di polizia, sono state quindi archiviate dal giornalismo italiano (e ovviamente dalle maggiori forze politiche) nel giro di un giorno. Quella notizia era così fastidiosa, così imbarazzante, così densa di implicazioni destabilizzanti, che non si è letto un commento vero su un fatto tanto grave, non si è fatta un'inchiesta sullo stato della polizia, non si è saputo nulla di nulla sulla sorte dei condannati interdetti e di quelli non interdetti, salvo rare e assai limitate eccezioni (in genere relegate alle pagine regionali liguri!).
E stiamo parlando, è bene ricordarlo, di quotidiani nei quali si commenta ogni giorno di tutto, con piccoli eserciti di commentatori professionali, purché, appunto, non si tratti di una di quelle materie imbarazzanti e fastidiose che fanno parte della vasta area dei tabù del giornalismo nazionale.
Questa lunga premessa serve a spiegare l'impressionante eufemismo utilizzato su Repubblica per indicare al lettore - nell'edizione del 24 ottobre 2013 - il recentissimo passato in polizia di Filippo Ferri, attuale responsabile dei servizi privati di sicurezza per la squadra di calcio del Milan. Ferri è stato fino al 5 luglio 2012 un funzionario di polizia, in particolare è stato colto dalla condanna inflitta dalla Cassazione per il processo Diaz mentre ricopriva il ruolo di capo della squadra mobile a Firenze. Ferri è stato condannato definitivamente per falso e calunnia a 3 anni e 8 mesi di carcere (3 anni coperti dall'indulto) e all'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Ha quindi perso il posto di lavoro - almeno per un quinquennio poi si vedrà - salvo trovarne rapidamente un altro nella società presieduta da Silvio Berlusconi. Tutto questo nell'articolo è diventato un innocuo e fumoso "implicato nel caso G8 di Genova".
Implicato? Caso G8? Che cosa può aver capito il lettore? Non certo qual è la realtà, cioè che Filippo Ferri non è stato "implicato" bensì condannato in via definitiva e interdetto da ogni impiego per conto dello stato. E che tutto ciò non è avvenuto per "il caso G8 di Genova" ma nel processo Diaz, cioè per un episodio definito da uno dei funzionari che ne furono protagonisti una "macelleria messicana", definizione azzeccata per quanto riguarda la parte delle violenze fisiche, ma decisamente incompleta, poiché il caso Diaz è stato un concentrato di abusi, falsi e calunnie che passerà alla storia - nera - della polizia italiana.
Si poteva descrivere così Filippo Ferri, nel mentre che se ne raccontava il nuovo ruolo di "tutor" del calciatore Mario Balotelli? Non si poteva. Sarebbe toccato mostrare più di qualche dubbio sulla scelta della società calcistica, non fosse che per ragioni di immagine. Sarebbe davvero suonato male scrivere che la stella della squadra e della nazionale italiana è stato affidato a un tutor che ha nel suo passato una condanna definitiva per una vicenda tanto spiacevole come la mattanza alla scuola Diaz e che ha cominciato a lavorare per il Milan non perché volesse lasciare la polizia e sperimentare una nuova avventura, ma in quanto lo Stato italiano, tramite in suoi tribunali, ha stabilito che non può più servire nell'amministrazione pubblica, almeno fino al 2017.
La scelta di definire Filippo Ferri "implicato nel caso G8″ non è stata una svista. L'articolo è finito in prima pagina e la dizione "implicato" è ripetuta nelle pagine interne. La questione G8 compare anche nel titolo di prima: il tutto è stato quindi passato al vaglio di caporedattori e direttori. Diciamo che questo piccolo episodio è rivelatore di una consolidata attitudine - ma è meglio dire di un'inattitudine, se pensiamo che i giornali dovrebbero essere, o almeno tentare di essere dei "cani da guardia del potere" - dei maggiori media italiana rispetto alle forze di sicurezza.