ALLA fine, mentre scende le scale dopo aver visitato il bagno del terzo piano in cui sua figlia Sara, terrorizzata, si rinchiuse sperando invano di sfuggire alla furia di un'orda di picchiatori in divisa, a Enrica Bartesaghi, presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova, viene spontanea una riflessione: «Ma perché dopo di noi anche qualche poliziotto non torna a farsi un giro? Chissà che, dopo, qualcuno non decida di chiedere finalmente scusa».
NATURALMENTE ieri, alla prima apertura della Diaz alle vittime della macelleria messicana del G8 2001 dopo 12 anni, non solo non c'era alcun poliziotto ma l'altro grande assente era lo Stato. Nessun rappresentante delle istituzioni, non parliamo poi di uno straccio di politico, deputato o senatore che sia. Il ricordo della Diaz va seppellito, come dimostra la nomina a presidente di Finmeccanica di Gianni De Gennaro, capo di quella polizia che nel 2001 massacra e falsifica le prove.
Ma quella di ieri è stata una giornata storica. Accolti dal nuovo preside Aldo Martinis e da alcuni docenti del rinato liceo Pertini, Lorenzo Guadagnucci, Arnaldo Cestaro e Mark Covell, tre reduci della notte cilena, hanno potuto rievocare, soffrire e forse finalmente metabolizzare il ricordo che non li ha mai più abbandonati. Con loro anche Enrica Bartesaghi e il marito. La figlia della coppia, Sara, ha scelto di vivere in Francia, e non è un caso.
«Voglio ringraziarla anche a nome di mia figlia», ha dettoEnrica al preside. Il professor Martinis ha risposto: «Ho fatto una cosa assolutamente normale. E' stato tenervi fuori che non lo era».
Con il gruppetto anche il consigliere di Rifondazione Comunista Antonio Bruno, unico politico genovese ad occuparsi ancora del G8 nonostante non sia più un tema da passerella elettorale, e poi Vittorio Agnoletto, che fu portavoce del Genoa Social Forum ed è un altro che non ha dimenticato.
Ieri ha rivelato un retroscena nascosto: «Mark Covell, che rischiò di morire per le botte ricevute fuori dal cancello, si salvò perché un poliziotto, uno solo, chiamò l'ambulanza. Tale è stata l'omertà della polizia da non permettere neppure di scoprire il nome di quell'agente, magari per ringraziarlo».
Lorenzo Guadagnucci: «Oggi abbiamo finalmente violato un tabù. Ci torneremo, quando sarà possibile, assieme ad altri ex della Diaz, ho sentito dei tedeschi e degli spagnoli che per altri impegni in questi giorni non potevano essere a Genova. Ma mi hanno detto quanto sarebbe importante anche per loro riuscire a rivedere la scuola».
Guadagnucci si è fermato a lungo, da solo, davanti all'angolo della palestra in cui credeva di trascorrere una tranquilla notte di sonno: «Entrarono e iniziarono a colpire con i manganelli. Se non avessi alzato le braccia mi avrebbero rotto la testa come a tanti altri. Ricordo ancora con terrore le due ore trascorse in attesa di essere portati via. Pensavamo potesse ancor succederci di tutto, fui costretto a strisciare per spostarmi di dieci metri, fu davvero umiliante».
Come lo è assistere al teatrino dei funzionari condannati che hanno sì chiesto di essere affidati ai servizi sociali per evitare il carcere, ma che non ammettono ancora le loro colpe, seppur certificate da una sentenza della Cassazione.
«Non c'è poi molto da stupirsi - conclude Guadagnucci -. La polizia italiana non mi sembra cambiata granché in questi dodici anni, specie ai vertici, come dimostra la vicenda kazaka del rapimento di Alma Shalabayeva». E' quasi mezzogiorno e il gruppo esce dalla Diaz, ma questa volta le porte resteranno aperte.