Quando, subito dopo quei tre giorni ma soprattutto dopo quella notte, raccontavo quanto era accaduto, nessuno poteva credere che fosse la realtà. E io stessa faticavo a credere alla mattanza della quale ero stata testimone.
Il sangue, le cariche, i manganelli, le divise, i lacrimogeni, le urla. E ancora il sangue. Sui marciapiedi, sui sacchi a pelo, sui termosifoni, sulle scale.
Marina Spaccini una donna eccezionale, mite e forte, dopo aver testimoniato sulla furia cieca di quelle divise che in piazza Manin nel luglio 2001 le avevano aperto la testa coi manganelli mentre soccorreva un altro manifestante, mi confidò un segreto. La ferita più dolorosa, quella che non si sarebbe più rimarginata, per lei mamma, nonna, pediatra volontaria in Africa, che si trovava con le mani dipinte di bianco tra centinaia di altri pacifisti a manifestare per i diritti di tutti, era la perdita di fiducia. La fiducia nello Stato, la fiducia in quelle divise che lo Stato avrebbero dovuto rappresentare.
In quei tre giorni, ma soprattutto in quella notte alla Diaz, la fiducia nelle divise e nello Stato, per chi in quei tre giorni c'era, è andata perduta.
Nei processi, quelle divise hanno sempre negato o peggio occultato la verità. Mai hanno chiesto scusa. Mai l'ha chiesta neppure lo Stato che rappresentano. Marina se ne è andata dal mondo che ha cercato di cambiare, senza che la sua ferita si rimarginasse.
Oggi di quelle divise, delle sole individuate e identificate come colpevoli, i picchiatori sono ancora in servizio. I loro complici «graduati» invece si sono trasformati, in obbligati «volontari» della Caritas o di altre associazioni umanitarie, grazie a più di un decennio di processi e di inoppugnabili sentenze di condanna. Cosa non si fa per non finire in carcere! Ora quelle stesse divise si rivolgono al Tribunale di Sorveglianza per chiedere di scontare la pena residua tramite misure alternative.
Pretendono il perdono ma non hanno mai chiesto scusa. Né hanno mai ammesso le proprie responsabilità. Ora forse i loro legali prepareranno per loro una lettera per fare ammenda e soprattutto per evitare la prigione. Scuse, se mai arriveranno, comunque tardive e obbligate e dunque insufficienti a risanare ferite. Potrebbero sembrare l'ennesimo trucco di chi non vuole affrontare le proprie responsabilità.
D'altronde dei 47 condannati per le torture di Bolzaneto solo 4 hanno scelto di non avvalersi della prescrizione, gli altri 43 colleghi invece sono ben lieti di restare impuniti.
Eppure divise che sappiano riconoscere (tempestivamente e spontaneamente) le proprie colpe e chiedere scusa sono più forti perché' più rispettabili.
Ed è rispettabile uno Stato dove le regole devono valere per tutti. Diversamente si crea per i cittadini l'inaccettabile sospetto che a pagare (anche con la tortura delle nostre prigioni) siano sempre i più deboli, i più poveri, i disagiati, gli stranieri o i tossicodipendenti.
Allora sarebbe auspicabile, se si vogliono evitare nuovi ingressi in carcere, applicare, come ci raccomanda il Consiglio d'Europa, la mediazione penale ovvero la procedura per la quale vittima e colpevole partecipano insieme attivamente alle soluzioni delle questioni derivanti dal reato con l'aiuto di un mediatore, di modo che i condannati possano avere un'occasione per rimediare consapevolmente ai torti inflitti, le vittime possano ottenere una «riparazione» delle proprie sofferenze e i cittadini possano ricevere ristoro e rassicurazione da una Giustizia efficace, equa e non vendicativa.
E di modo che le tantissime divise eroiche e giuste tornino ad avere il rispetto e la fiducia dei cittadini. Per quelle 17 disonorate divise che oggi chiedono venga loro evitato il carcere, trovo perfette, fatte le debite proporzioni, le parole, della signora Schifani vedova di un'onorata divisa, «chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso.. Sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare... Ma loro non cambiano.. non vogliono cambiare. Vi chiediamo per la città.. che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l'amore per tutti. Ma non c'è amore».