DA IERI mattina, attraverso la sentenza che lo ha condannato a due anni e otto mesi per falsa testimonianza, la verità giudiziaria (seppur non ancora definitiva) dice che l'ex questore di Genova Francesco Colucci, chiamato a testimoniare durante un'udienza del processo Diaz, modificò dolosamente la sua ricostruzione degli eventi, rispetto a quanto sostenuto in un precedente interrogatorio, evitando così un possibile coinvolgimento del "capo", il prefetto Gianni De Gennaro.
Ma un'altra sentenza, questa volta della Cassazione, dello scorso anno, ribaltando la condanna comminata in appello a De Gennaro, pur censurando il «contatto inopportuno» tra un teste e il suo superiore gerarchico, ha assolto l'ex capo della polizia oggi sottosegretario del Governo Monti (e con lui l'ex dirigente della Digos Spartaco Mortola) dall'accusa di istigazione alla falsa testimonianza.
Le due sentenze, alla luce del buon senso, possono essere definite contraddittorie perché: o resta oscura e misteriosa la ragione per cui l'ex questore cambiò la sua versione; oppure tanta confusione mentale dovrebbe comportare una seria riflessione sui criteri di selezione delle gerarchie all'interno del Viminale. Colucci, in quella imbarazzante udienza del 3 maggio 2007 («Forse ho sbagliato nel parlare... La mia affermazione forse è stata un po' sprovveduta, superficiale... Non sono sicuro, lo giuro davanti a Dio e allo Stato italiano») modificò due punti centrali della sua precedente deposizione. Il primo è su chi decise la notte della Diaz l'invio sul posto di Roberto Sgalla capo ufficio stampa della polizia. In un primo tempo Colucci disse che fu De Gennaro mentre in udienza sostenne di esser stato lui stesso, allontanando in questo modo dalla gestione disastrosa, anche mediaticamente, dell'operazione la figura del prefetto De Gennaro. Inoltre, sostenne che il funzionario responsabile dell'intervento era l'allora vice questore Lorenzo Murgolo, uno dei pochi a non finire indagato e per questa ragione inviso a tutto il gruppo di vertice della polizia.
La sentenza di ieri, pronunciata dal giudice Massimo Deplano, è stata accolta con soddisfazione dai pm che hanno sostenuto l'accusa, Francesco Cardona Albini e Enrico Zucca. «Siamo stati convintissimi nel richiedere la condanna - hanno detto - . Le argomentazioni che abbiamo speso sono quella che hanno guidato l'accusa sin dalla prima fase dell'indagine. Esisteva l'interesse a rendere una testimonianza non genuina in quel processo perché implicava situazioni di responsabilità di alti vertici». «Questo è un processo che ci ha abituati a ribaltamenti continui e che consiglia di proseguire nelle fasi ulteriori del giudizio, andando se del caso anche davanti alla Cassazione» hanno invece commentato i legali di Colucci, Maurizio Mascia e Gaetano Velle. Lapidaria l'analisi, che apre un inquietante scenario per altro sempre attentamente ignorato dalla classe politica, dell'avvocato di parte civile Emanuele Tambuscio: «La sentenza di oggi è molto importante perché sancisce che nel processo Diaz c'è stata un'opera di grande inquinamento probatorio da parte di un alto funzionario di polizia».