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Diaz, da De Gennaro solidarietà ai condannati "Dolore per chi ha subito torti, ma io corretto"
Fabio Tonacci
Fonte: Repubblica, 9 luglio 2012
9 luglio 2012

Tre giorni di silenzio, poi una nota di poche righe. Che dice e non dice. Che parla di «profondo dolore per tutti coloro che a Genova hanno subito torti e violenze» ma senza esprimere scuse come invece ha fatto l'attuale capo della polizia Antonio Manganelli. Invocando il rispetto delle sentenze della magistratura, ma senza aggiungere niente a undici anni di silenzi sull'unica domanda ancora senza risposta: perché quella mattanza alla Diaz? Il prefetto Gianni De Gennaro ha scelto la via del comunicato per commentare, 72 ore dopo il pronunciamento della Cassazione, la condanna in via definitiva dei 25 poliziotti per le violenze nella scuola genovese durante il G8. Lui, nel luglio del 2001 al comando della polizia, non ammise responsabilità allora, e non le ammette oggi.
«Le sentenze devono essere rispettate ed eseguite - scrive De Gennaro, attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi - sia quando condannano, sia quando assolvono. Le competenti autorità hanno adempiuto a tale dovere operando con tempestività ed efficacia. Per quanto mi riguarda ho sempre ispirato la mia condotta e le mie decisioni ai principi della Costituzione e dello stato di diritto, e continuerò a farlo». Nessun chiarimento sul perché, di fronte a quella che Amnesty International definì «la più grande sospensione della democrazia in Occidente», non sentì il bisogno di dimettersi, trincerato dietro al fatto di non essere direttamente responsabile dell'ordine pubblico a Genova.
Troppo poco, questa nota, per chi è stato ferito dalle violenze del G8.
«De Gennaro prova dolore, ma non chiede scusa - commenta Giuliano Giuliani, padre di Carlo, ucciso in piazza il 20 luglio del 2001 - Era il più alto in grado, dovrebbe sentire su di sé tutte le responsabilità su quanto accaduto quella notte alla Diaz». E Vittorio Agnoletto, portavoce del Global Social Forum a Genova, rincara: «Parole molto più simili a quelle di un capobanda che, dopo una sconfitta, resta consapevole dell'enorme potere di cui ancora dispone. De Gennaro con arroganza rivendica ogni cosa e, sfottendo i giudici, osa addirittura affermare che tutto si è svolto secondo la Costituzione».
Rispetto per le sentenze, dice dunque l'ex capo della polizia. Che siano di condanna, come quella che giovedì ha distrutto la carriera ad alcuni dei suoi uomini migliori, come ad esempio Francesco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, nel 2001 capo e vice del Servizio centrale operativo, (a loro va «affetto e umana solidarietà - scrive De Gennaro - sono funzionari di cui conosco il valore personale e che tanto hanno contribuito ai successi dello Stato democratico »). O che siano sentenze di assoluzione, come quella che lo ha visto uscire indenne da uno dei filoni processuali scaturiti dalle vicende del G8 genovese.
Lo scorso 22 novembre, infatti, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza che aveva condannato in secondo grado De Gennaro a un anno e quattro mesi e Spartaco Mortola (ex capo della Digos del capoluogo ligure) a un anno e due mesi per induzione alla falsa testimonianza. L'accusa per entrambi, motivata da alcune intercettazioni telefoniche risalenti al 2007, era di aver indotto Francesco Colucci (ex questore di Genova nel 2001) a ritrattare la propria testimonianza nel processo Diaz. La questione verteva su chi avesse impartito l'ordine a Roberto Sgalla, responsabile delle comunicazione esterne della polizia, di recarsi alla scuola la notte delle violenze. Colucci prima disse che quel comando era arrivato da De Gennaro, lasciando intendere che l'allora capo della polizia sapesse cosa stava succedendo. Poi ritrattò, e attribuì quell'ordine a se stesso. Davanti alla sesta sezione penale della Suprema corte, il procuratore generale Francesco Iacoviello (già al centro di polemiche per alcuni clamorosi ribaltamenti di sentenze, come nei casi Andreotti, Squillante, Dell'Utri) chiese il proscioglimento per De Gennaro e Mortola. «Il fatto non sussiste», stabilì la Cassazione, perché la sentenza di secondo grado era «un deserto di prove».