Per quel gusto un po' insipido, e piuttosto inutile, che persegue (giornalisticamente) l'etichetta a tutti i costi, proviamo a immaginare che qualcuno finirà per paragonare Diaz a Romanzo di una strage. «Cinema politico», storia italiana, anche il film di Daniele Vicari, infatti, parla dell'Italia e della sua democrazia malata nelle istituzioni e nella classe dirigente. Questo paragone però, anche solo immaginato, sarebbe davvero fuori luogo. Vicari nelle sue intenzioni parte da presupposti del tutto opposti: non si tratta di «svelare» un colpevole (o di accusare qualcuno) perché sul G8 di Genova e sulle responsabilità politiche di chi ha ordinato e permesso l'assalto alla Diaz, il massacro dei giovani del Social Forum che ci dormivano dentro, le torture nel carcere di Bolzaneto sappiamo tutto. Non ci sono «trame» o «complotti», e peraltro su quei giorni c'è una grande quantità di materiale girato durante manifestazioni e scontri. Molti registi italiani allora partirono per documentare quanto sarebbe accaduto, c'erano progetti di film collettivi non riusciti per diversi motivi, anche se poi l'immaginario, come sempre quando si tratta di affrontare la «realtà» del nostro paese nei suoi tabù e rimossi, non è riuscito a produrre film su Genova - il migliore finora è Black Block di Carlo Bachschmidt.
Ma soprattutto la distanza (totale) tra i due film, è nello sguardo: Diaz non cerca il « colpevole», vero o presunto, ma prova a riflettere (e a fare riflettere) sulle conseguenze di quella democrazia malata, e sulle sue modalità. Come è possibile che sia accaduto qui, tra noi, ora è la domanda di un racconto che si fonda sugli atti processuali e sulle sentenze della corte di appello di Genova.
Per questo il film non vuole raccontare il G8 nella sua interezza ma si concentra sull'assalto alla Diaz e sulle torture a Bolzaneto, i momenti in cui la sospensione del diritto democratico, in uno stato che si dichiara tale, diventano un'evidenza inconfutabile. .
«Il G8 di Genova è stato dal punto di vista mediatico un evento eccezionale. Solo sull'assalto alla Diaz mancavano delle immagini, c'era una videocassetta che poi è sparita» dice Daniele Vicari. E aggiunge: « Per scrivere il film abbiamo guardato ore di materiale, letto la documentazione, gli atti dei processi, e non per dire 'ecco, vi stiamo raccontando la verità', è stato più una scelta di metodo, anche se credo che mai come in questo periodo la verità sia rivoluzionaria».
I cartelli alla fine del film ci dicono che per i fatti della Diaz su 300 poliziotti che hanno partecipato al blitz, ne sono stati processati 29, condannati in 27, e le condanne per lesioni e calunnia sono cadute in prescrizione. Che la morte di Carlo Giuliani è stata archiviata come legittima difesa. Che il Parlamento italiano ha respinto per due volte la proposta di legge di istituire una commissione d'inchiesta sui fatti di Genova...
È questa impunità dunque, trasversale nella politica e nelle istituzioni, che il film percorre nel suo punto di rottura in cui la democrazia si dissolve. Molto rimane nel fuoricampo, sono cambiati i nomi dei dirigenti, come l'allora capo della polizia Di Gennaro, capo della Digos di Genova Spartaco Mortola, o il capo del settimo reparto della mobile, Vincenzo Canterini, il suo vice Michelangelo Fournier, colui che parlò di «macelleria messicana», a cui si riferisce il personaggio interpertato da Santamaria - ma francamenre fatichiamo a credere che si sia scusato con una ragazza coperta di sangue.
Ciò che conta è una sorta di metafora della fragilità di uno stato democratico che arriva fino a oggi, quando assistiamo a interi paesi messi in ginocchio dalle banche europee e dai loro ordini. La cifra «universale» sono i tonfa che si abbattono sui corpi inermi dei ragazzi addormentati nel social forum, i calci in faccia, i nasi rotti, gli occhi pesti, le ossa spaccate. Picchiare, picchiare senza pensare che si può uccidere. E a Bolzaneto l'umiliazione, la ragazza intorno a cui la macchina da presa gira, gira nuda, svestita del suo essere persona. L'assalto alla Diaz è la «scena madre», ritorna, si dilata nel tempo (cinematografico), è l'imbuto in cui i diversi punti di vista convergono in uno solo.
«Fino a che non ho letto gli atti del processo, anche io avevo interpretato i fatti di Genova politicamente, come la repressione di un movimento. Il che rientra in una certa logica, io mi ribello, lo stato mi reprime. Ma quello che è accaduto lì va oltre, riguarda la perdita della dignità di un essere umano. Il poliziotto che è il famoso padre di famiglia, quando torna a casa e da una carezza alla figlia, continua a essere il padre di famiglia. Ma nel momento dell'assalto alla Diaz e a Bolzaneto è un aguzzino».
A chi gli fa notare la mancanza dei nomi, della politica Vicari risponde: «Non sono capace di fare film storici, e finora anche per questo non avevo mai fatto film basati su fatti reali. La realtà è molto complessa. Io metto in gioco me stesso, e chiedo allo spettatore di fare lo stesso. I nomi e cognomi riguardano la cronaca, il film invecchierebbe così. Questo non vuol dire che la politica non abbia delle responsabilità, a cominciare dal fatto di avere trasformato un confronto che doveva essere politico in uno scontro fisico. E dico di più: la vicenda di Genova interpella la coscienza anche dei cittadini europei. Se un italiano viene arrestato per stupro a Taiwan, la Farnesina interviene subito. Da parte dei governi europei non c'è stato nessun intervento presso il governo italiano per sostenere i propri cittadini detenuti. Quei ragazzi sono rimasti soli, e anzi una volta tornati a casa hanno subito un processo mediatico, li accusavano di essere dei terroristi pericolosi che avevano disrtrutto la città di Genova. Erano tutti d'accordo per fermare il movimento , e lo vediamo nei nostri giorni».