Forse non è detta l'ultima parola, forse non è intoccabile. Forse. Due anni di reclusione per il prefetto Gianni De Gennaro e un anno e quattro mesi per il vicequestore Spartaco Mortola. Il procuratore generale di Genova è tornato a chiedere la condanna per l'allora capo della polizia e per quello che guidava la digos di Genova al processo d'appello per aver istigato alla falsa testimonianza l'ex questore di Francesco Colucci durante il processo per la sanguinosa irruzione alla scuola Diaz durante il G8 del 2001. Si tratta del massimo della pena, scontato di un terzo per via del rito abbreviato. In primo grado De Gennaro e Mortola erano stati assolti poichè «non c'erano prove sufficienti di colpevolezza» ma quell'assoluzione era sembrata possibile solo se fossero state ignorate le registrazioni delle telefonate tra Colucci, a sua volta sotto processo per falsa testimonianza, e Mortola, imputato per la vicenda delle molotov portate alla Diaz per incastrare 93 manifestanti che non c'entravano nulla con le violenze di piazza. Non ha rilasciato dichiarazioni ma era presente all'udienza di ieri De Gennaro, attualmente a capo del dipartimento per l'informazione e la sicurezza. Assente invece colui che, nel frattempo e in barba alla recente condanna in appello, è vicequestore vicario di Torino. Oltre all'accusa in aula ha discusso una delle quattro parti civili ammesse al processo di secondo grado. Si tratta di Gilberto Pagani, legale di due vittime della Diaz. A lui è toccato ricordare che in ballo non ci sono astratte violazioni delle norme ma persone massacrate.
La prossima udienza è stata fissata per il 9 giugno. La sentenza è prevista al massimo per il 17 giugno.
Riassunto delle puntate precedenti di un processo che s'è svolto a porte chiuse poiché Mortola e il suo capo hanno scelto il rito abbreviato: quando fu interrogato dai pm che seguivano l'inchiesta sulle violenze e gli abusi commessi dalla polizia alla scuola Diaz, il questore dell'epoca tirò in ballo il capo della polizia. Disse che De Gennaro in persona lo consigliò di avvertire Roberto Sgalla, capo delle relazioni stampa del Viminale. Una volta in dibattimento, Colucci fece marcia indietro sostenendo che De Gennaro, nel frattempo divenuto il Negroponte italiano, ossia il capo di tutti i servizi segreti, fosse all'oscuro della sanguinosa e illegittima operazione cui prese parte il gotha della polizia di stato. E che fosse stata una sua idea quella di avvisare Sgalla. Quest'ultimo fu immortalato ai cancelli della Diaz mentre sbarrava il passo ai parlamentari e ai legali nominati che volevano vedere cosa stesse accadendo nella scuola assediata e dalla quale si levavano urla disumane. «E' una normale perquisizione», ripeteva il funzionario secondo il quale tutto quel sangue sugli arrestati risaliva agli scontri del mattino.
Alcune telefonate intercettate, tra l'ex questore e l'ex capo della digos di quella città, registrarono prima quella che all'accusa è parsa la richiesta del gran capo di «fare un po' marcia indietro anche per dare una mano ai colleghi», poi i complimenti del Viminale per l'esito di quella rettifica. Naturalmente, la posta in gioco era, ed è, il ruolo di De Gennaro nella mattanza cilena compiuta da decine di poliziotti travisati che nessuno si sforzò di riconoscere. Per questo sui registri degli indagati finirono solo nomi di funzionari e capisquadra. Capisquadra della celere, i Canterini boys, e funzionari eccellenti, capi dell'anticrimine e dell'antiterrorismo. Tutti colpevoli per la serie di violenze e abusi di quella notte contro 93 persone su cui si voleva cucire la terribile accusa di associazione a delinquere finalizzata alle devastazioni e ai saccheggi dei giorni precedenti. La metà di loro fu ammazzata di botte, con conseguenze gravissime, e per tanti si spalancò l'orrore di Bolzaneto, il carcere provvisorio stabilito in una caserma della celere a nord di Genova. Da lì sparirono per alcuni giorni in alcune carceri del circondario. Finché tornarono con il fardello di accuse gravissime (confermate dai processi) e domande ancora inevase come quella sulla catena di comando a cui la sentenza potrebbe aggiungere un tassello. Certo, magari un parlamento normale avrebbe svolto una seria inchiesta anziché la frettolosa indagine conoscitiva che fu concessa all'indomani dei fatti. Il presidente di quella commissione recitò un mantra ossessivo per ricordare ai funzionari in audizione che l'indagine conoscitiva non aveva i poteri di un'inchiesta parlamentare. Così, proprio Colucci poté disinvoltamente affermare che i black bloc fossero imprendibili poiché improvvisamente calati da nord quando era accaduto tutto il contrario.
Un parlamento normale avrebbe svolto un'inchiesta ma questo parlamento è meno normale di quello che lo ha preceduto e che bocciò - grazie a Mastella, Violante e Di Pietro - la commissione su quei fatti.