E ora? Quando è ancora primo pomeriggio, la domanda con cui il Dipartimento di Pubblica Sicurezza si è risvegliato da una notte complicata, convince il capo della Polizia Antonio Manganelli a offrire una risposta. Che, a suo modo, svela cosa accadrà di qui in avanti e il giudizio su ciò che è accaduto sino a ieri. E che a ben vedere traccia un perimetro più accorto e articolato rispetto al segno politico delle prese di posizione del ministro dell´Interno Roberto Maroni e del suo sottosegretario Alfredo Mantovano. «Innanzitutto - dice Manganelli a "Repubblica" - voglio ribadire la nostra incondizionata fiducia e serenità nel lavoro della magistratura. Così come la convinzione, valida ieri e a maggior ragione oggi, che questa amministrazione, nelle sue scelte, debba attenersi al rispetto del principio costituzionale che vuole un cittadino, chiunque esso sia, innocente fino alla sentenza definitiva». Quindi, il punto chiave: «Faccio questa premessa, che evidentemente non vuole essere né una clausola di stile, né un escamotage per sfuggire al merito delle questioni poste dal processo di Genova, perché ritengo la presunzione di "non colpevolezza" a maggior ragione cruciale in questa vicenda. Quello che oggi vediamo, infatti, è che due diversi giudici di merito, posti di fronte a un identico quadro probatorio, hanno raggiunto conclusioni diametralmente opposte, quantomeno rispetto alla posizione di alcuni imputati. Questo dimostra la complessità nella ricostruzione delle responsabilità di quanto accaduto quella notte e la complessità dei fatti che sono stati oggetto di accertamento. E tutto questo, lo ripeto, mi fa allora dire che solo una sentenza definitiva della Cassazione ci autorizzerà a tirare una linea definitiva su questa vicenda e ci consentirà di prendere delle eventuali decisioni amministrative».
La sentenza di appello di Genova, dunque, lascia inalterati, quantomeno fino alla sentenza di Cassazione, i destini professionali e il ruolo nel Dipartimento dei tre imputati di maggior peso del processo. Gli allora funzionari (e oggi dirigenti) responsabili della catena di comando nella notte della Diaz. Quelli che hanno visto ribaltate in condanne le assoluzioni di primo grado, dando così un nuovo giro e soprattutto un nuovo segno alla vicenda processuale. Francesco Gratteri resterà alla guida della Direzione centrale anticrimine, Gilberto Caldarozzi continuerà a dirigere il Servizio Centrale Operativo (Sco), Gianni Luperi, già Ucigos, proseguirà nel suo lavoro all´Aisi, la nostra intelligence domestica, dove è da tempo ormai transitato. Manganelli - lo abbiamo visto - rivendica la scelta appellandosi a un dato non soltanto formale (nessun provvedimento amministrativo prima di una pronuncia della Cassazione), ma sostanziale quale la «perdurante incertezza nell´accertamento delle responsabilità». E nel farlo, punta a un doppio risultato. Il primo: non abbandonare al loro destino dirigenti sui quali, da capo della polizia, ha scommesso e della cui innocenza è personalmente convinto. Il secondo: non riaprire prima del tempo un eventuale redde rationem all´interno dell´Amministrazione per la ferita mai rimarginata nel Paese del G8 di Genova.
Manganelli è del resto assolutamente consapevole che di quei giorni del luglio 2001 resta infatti un convitato di pietra, l´allora capo della Polizia e oggi direttore del Dis (l´organismo di coordinamento e di vertice dei nostri Servizi di intelligence) Gianni De Gennaro. E se è vero che nel Dipartimento di Pubblica sicurezza di oggi siedono uomini che di quella stagione ormai lontana nove anni non sono più l´espressione, è altrettanto vero che quando il processo genovese troverà una sua conclusione sarà inevitabile che il giudizio pubblico torni a interrogarsi su quel nome. Sulle sue scelte di ordine pubblico che segnarono la vigilia e i giorni del G8 di Genova. E non sarà un passaggio indolore.
Un anno e mezzo fa, il 16 novembre del 2008, all´indomani della sentenza di primo grado di Genova per i fatti della Diaz, Manganelli, rispondendo a una sollecitazione di "Repubblica", scrisse una lettera aperta a questo giornale. «Credo anche io - si leggeva - che il Paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente accadde a Genova. L´Istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal fine senza alcuna riserva, non attraverso proclami via stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali. Si muove, e si muoverà, inoltre, con i fatti. Abbiamo ai vertici dei reparti, investigativi e operativi in genere, persone pulite. Io sono il loro garante e mi assumo, come ho già fatto, la responsabilità per gli errori che possano commettere. Sto scrivendo l´ultimo capitolo della mia storia professionale e non lo macchierò certo per reticenza, per viltà o per convenienza». Ebbene, oggi, Manganelli torna a ricordare quelle parole per «ribadirle» e per «rivendicare la coerenza dei fatti che ne sono seguiti». «Da più di un anno - dice - abbiamo per la prima volta nella storia della Polizia una scuola dove si sta insegnando e sedimentando una nuova cultura dell´ordine pubblico. Dove si mostrano attraverso i video girati dai nostri operatori le buone ma anche le cattive pratiche di governo della piazza, proprio perché gli errori non si ripetano. Questo per me vuol dire aver imparato la lezione di Genova e rispondere con i fatti al Paese, facendo il mio mestiere. Questo è il motivo per cui continuerò ad attendere con serenità e fiducia che la magistratura concluda il suo lavoro».