ALBENGA. L'unico poliziotto assolto dalla Corte di Appello di Genova è anche il solo dei 28 imputati ad aver cambiato lavoro:«Io non ce l'avrei mai fatta a indossare la divisa con una condanna sulla testa», dice allargando un sorriso pacioso, incorniciato da capelli imbiancati in fretta.Michele Burgio, 42 anni single, ora fa l'addetto alla sicurezza dell'Ippodromo di Albenga. Era «l'ultima ruota del carro» nel giorno della Diaz. Ed eral'autista del generale Valerio Donnini,la massima autorità del Viminale a Genova alG8 del 2001 Fu il primo a parlare,interrogato dai pm come testimone.E pagò la sua disponibilità gomme dell'auto tagliate,la scorta,le frecciate dei colleghi e persino qualche «pressione» per aggiustare il tiro su quanto riferito.
Valerio Donnini era il «generale fantasma», mai toccato dall'inchiesta nonostante fosse stato lui a prendere in carico le molotov raccolte da un agente in un'aiuola della Foce durante gli scontri e diventate, con un specie di colpo di bacchetta magica, le prove a sostegno di 93 arresti illegali, falsi verbali e una perquisizione sfociata in un massacro. Michele Burgio era l'autista che guidò fino alla Diaz con quelle bottiglie incendiarie nel bagagliaio. Con lui il vice questore Pietro Troiani. Era accusato di calunnia e trasporto illegale di armi: il suo legale, l'avvocato Alessandro Cibien, ha portato a casa un'assoluzione piena. Il giudice ha condannato tutti i vertici e ha assolto in parte (per l'accusa più grave) il suo capo Troiani e ha scagionato lei. Il governo e il capo della polizia hanno rinnovato il sostegno ai loro super dirigenti. Lei ha ricevuto notizie da Roma?
«Quando mi diedero due anni e sei mesi in primo grado, nessuno mosse un dito. Ma me l'aspettavo. Ero solo un autista... No, nessuna notizia. In fondo, però, non sono più in polizia da un po' anche se, quando la sentenza sarà definitiva, sarà lo Stato a pagarmi le spese legali».
Come arrivò alla decisione di lasciare il servizio?
«Mia madre mi diceva fin da piccolo che ero nato per fare il poliziotto. Un giorno una collega, in un momento di sconforto, mi disse che si era stufata. Io le risposi che nessuno sarebbe mai riuscito a stufare me. Be', devo ammettere che ci sono riusciti».
Per quanto tempo ha fatto il poliziotto?
«Tredici anni, tra Milano, dove ho fatto per qualche mese la scorta ai magistrati del pool di Mani pulite, e Roma. Da tempo chiedevo il trasferimento in Liguria ma sembrava chiedessi la luna. Poi è arrivato il G8...».
Come ha vissuto i giorni dell'inchiesta sul caso dell'irruzione alla scuola Diaz?
«Sono stato tra i primi a essere interrogato dai due pm, Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona. Mi tennero per quindici ore sotto il torchio. Ero solo un testimone e difatti quelle parole dette senza avvocato non sono state usate al processo. Ma le ho pagate care».
Come?
«Il giorno dopo, uscendo di casa per andare a fare la spesa con mia madre, trovai le quattro ruote dell'auto tagliate. Denunciai l'episodio alla questura di Genova, mi misero sotto scorta per qualche mese e poi tra gli obiettivi sensibili. La situazione era tesa. Anche con certi colleghi. Come se mi ritenessero responsabile di qualcosa».
Lei aveva risposto alle domande, forse contribuì all'identificazione di Pietro Troiani
«Feci solo il mio dovere. I miei capi di allora mi dissero di dire tutto quello che sapevo, anche se in seguito le pressioni aumentarono per aggiustare un po' le cose».
E le reazioni?
«La maggioranza dei colleghi e degli amici veri era al mio fianco. Pochi altri, invece, li sentivo parlare alle mie spalle, quando passavo. Facevano battutine idiote, che non voglio neanche più ripetere. È facile giudicare quando le cose capitano agli altri. Quando toccano a te è diverso ed è difficile fare ironia. Così un bel giorno ho detto basta. Ne ho parlato alla mia famiglia. Era giusto che lo facessi con loro e ho mollato».
Come ha saputo dell'assoluzione?
«Dodici ore in ritardo. Le prime notizie diffuse dai telegiornali mi davano per errore condannato. Mia madre si è messa a piangere. E io mi sono attaccato ai tranquillanti. I miei amici mi chiamavano in continuazione. Al motor club stavano organizzando una colletta per le spese legali. Il mio avvocato era fuori Genova. Quando è riuscito a verificare che invece ero stato assolto e mi ha avvisato, ho ripreso a respirare e mia madre ha pianto di nuovo. Questa volta per la felicità».
Che cosa ricorda della notte della Diaz?
«Ricordo l'uscita dalla questura per i pattuglioni, alle 18. Io distribuii i panini ai colleghi, che da tre giorni lavoravano quasi senza sosta. Ero uno degli autisti. Ricordo uno spiegamento di forze incredibile, anche se con la mia colonna, con Digos e Sco, ci trovammo per sbaglio nella zona rossa davanti al tribunale. Lì non c'era bisogno di cercare alcunché.Ricordo la puzza di benzina che c'era nel Magnum, che poi scoprii provenire dalle due molotov».
Nel processo di primo grado accusarono lei e Troiani di aver ingannato i vertici della polizia portando quelle bombe alla Diaz
«Vero. E per fortuna la Corte di Appello ha riconosciuto l'assurdità di tutto questo. Io non avevo alcuna responsabilità sul trasporto e l'utilizzo di quelle bottiglie. Ma come, un autista si mette a dare ordini al vice capo della polizia? A un Gratteri?».
Con le molotov nel bagagliaio arrivaste alla Diaz
«Era sera. Ho parcheggiato e sono rimasto lì, a difendere il mezzo».
Quando si accorse che era successo qualcosa?
«C'era un sacco di persone e di giornalisti. Quando ho visto la telecamera della Cnn capii. E allora mi abbassai sul sedile, per non farmi inquadrare. Non sai mai come vanno a finire certe cose, mi dissi. Ora lo so».
Graziano Cetara