L'assoluzione dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro (nel frattempo divenuto capo del coordinamento dei Servizi segreti) e dell'ex dirigente della Digos di Genova, Spartaco Mortola (nel frattempo promosso vice questore vicario di Torino), già di per sé aveva il sapore di una beffa per tutti coloro che in quelle maledette giornate di Genova c'erano, o che in questi anni hanno tentato di seguirne le vicende processuali, tra omissioni e disinformazioni.
Quando poi, a poche ore di distanza, sono arrivate le misure durissime della seconda sezione della Corte d'Appello del capoluogo ligure per dieci presunti black bloc (98 anni e 9 mesi di reclusione la somma totale richiesta), tutto appare, ancora una volta, irrimediabilmente lampante: per i fatti accaduti a Genova nei giorni tra il 19 e il 22 luglio del 2001, oltre al vergognoso strascico consumato nel carcere di Bolzaneto, non ci sarà mai verità e giustizia. Come non ci sarà mai verità e giustizia per la morte di Carlo Giuliani; basta rileggere i commenti soddisfatti di maggioranza e rappresentanti significativi dell'attuale opposizione all'assoluzione di De Gennaro, definito da Haidi Giuliani, la madre di Carlo, un "intoccabile".
Di tutto questo parliamo con Lorenzo Guadagnucci, del comitato "Verità e Giustizia per Genova", giornalista che la sera del 21 luglio del 2001 si trovava dentro la scuola Diaz, dalla quale uscì per essere ricoverato in ospedale a causa delle ferite riportate dopo quella che Michelangelo Fournier, all'epoca vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, in una udienza ebbe (per un attimo) l'onestà civile di definire "macelleria messicana".
Dunque, Guadagnucci, partiamo dall'ultima condanna della corte d'appello di Genova. A neanche due giorni dall'assoluzione di De Gennaro e Mortola, sembra essere l'ennesima beffa...
E' una sentenza che va oltre le peggiori attese. La Corte ha aggravato le pene, già molto severe, inflitte in primo grado a una decina di persone, responsabili secondo l'accusa di una serie di azioni qualificate come 'devastazione e saccheggio'. Si sono inflitte pene a dieci, dodici anni, in un caso addirittura quindici. Stiamo parlando di persone che avrebbero compiuto azioni sicuramente condannabili: gli episodi più gravi sono il lancio di una molotov contro il portone del carcere di Marassi e l'incendio di una camionetta vuota dei carabinieri. Reati stupidi e che è giusto punire, ma in nessun caso si è trattato di violenze contro le persone. Come è possibile condannare a dieci, quindici anni? Sono pene alle quali spesso non si arriva nemmeno per casi di omicidio, molto superiori a quelle inflitte per violenza sessuale. C'è una sproporzione, nell'entità di queste pene, che fa pensare a certe condanne esemplari, negli stati autoritari, a carico dei dissidenti. Siamo al di fuori del perimetro delle democrazie rispettose dello stato di diritto: oggi, in una democrazia sana, griderebbero allo scandalo i politici e i movimenti di ispirazione liberaldemocratica; si metterebbe in discussione l'esistenza nel codice penale di un reato, introdotto non a caso in epoca fascista, che prevede pene enormi - minimo otto anni - per fattispecie poco definite: qual è il confine fra danneggiamento e devastazione? Se poi pensiamo che per le stesse vicende del G8 di Genova, violenze fisiche gravissime, come quelle compiute nella "macelleria messicana" alla Diaz, o quelle esercitate alla caserma di Bolzaneto contro decine di detenuti (i giudici hanno parlato esplicitamente di tortura), le condanne sono state ben inferiori, massimo quattro anni, e coperte per lo più dalla prescrizione. E questo nonostante l'aggravante costituita dal fatto di indossare una divisa e d'essere quindi, in quel momento, rappresentanti dello stato, quindi preposti a garantire i diritti dei cittadini. Credo che questa sentenza sia molto grave, e al tempo stesso emblematica della distorsione del percorso democratico del nostro paese.
Tornando all' "intoccabile" De Gennaro, come si può assolverlo dall'accusa di aver indotto alla falsa testimonianza l'ex questore Francesco Colucci, che invece viene rinviato a giudizio?
Sul piano strettamente tecnico, dovremmo capirlo quando saranno disponibili le motivazioni della sentenza del giudice. Colucci, in ogni caso, potrebbe essere assolto e quindi seguire la stessa sorte del suo capo; oppure potrebbe subire una condanna senza che la corte ritenga che via sia stata o sia provata un'intelligenza con De Gennaro. Ma non è questo il punto: sul piano tecnico-processuale, non è facile provare un reato come l'istigazione alla falsa testimonianza, in assenza - com'è il caso di De Gennaro - di intercettazioni telefoniche dirette. Detto questo, restano i comportamenti concreti, le scelte compiute nell'esercizio delle proprie funzioni. Sotto questo profilo Gianni De Gennaro, a mio avviso, non merita affatto i complimenti, le lodi, le telefonate personali che politici di maggioranza e opposizione gli hanno fatto, affrettandosi a darne annuncio all'agenzia Ansa. Voglio dire che le trascrizioni delle telefonate fra Colucci e Mortola restano, la sentenza di assoluzione non le può cancellare e chiunque può leggerle e farsi un'idea su che cosa è avvenuto, su quali relazioni sono intercorse fra testimoni e imputati, sull'atteggiamento verso i pm del processo Diaz. De Gennaro è stato assolto ma non si può ignorare qual è stato il comportamento suo e del suo gruppo dirigente negli otto anni seguiti al G8 di Genova. La polizia di stato ha ostacolato il corso della giustizia, anziché mettersi a disposizione della magistratura; gli altissimi dirigenti imputati al processo Diaz - tutti nel ristrettissimo entourage di De Gennaro - sono stati promossi a ruoli ancora superiori a processo in corso e hanno tenuto un comportamento processuale indegno di dirigenti di quel rango: si sono avvalsi della facoltà di non rispondere come normali cittadini imputati per reati comuni, rifiutando quindi di rispondere ai pm e di fornire spiegazioni ai giudici e ai cittadini su quanto avvenuto la notte del 21 luglio 2001, una delle pagine più vergognose nella storia della polizia italiana. E' un comportamento a mio avviso incompatibile con l'etica di un alto dirigente di polizia: chi occupa ruoli del genere deve rispondere ai pm, quando sia sotto processo per ipotesi di reato tanto gravi; se preferisce comportarsi come un cittadino comune, può certamente farlo, ma prima deve lasciare l'incarico. Non ci sono vie intermedie possibili, per chi abbia un'etica degna di una democrazia. Nel luglio 2001 l'ordine pubblico a Genova è stato gestito in modo fallimentare, oltreché lesivo dei diritti fondamentali: la stessa Corte europea per i diritti dell'uomo ha condannato lo stato italiano a risarcire la famiglia Giuliani. De Gennaro era il responsabile della polizia di stato nel 2001. Perciò mi domando quale sia la vera origine dei complimenti che ha ricevuto dopo la sua assoluzione; mi chiedo perché i media abbiano riferito la notizia come se l'assoluzione per l'episodio di Mortola e Colucci cancellasse le responsabilità morali, etiche, professionali, alla fine politiche che gravano su di lui per la gestione complessiva del G8 di Genova, prima durante e dopo il luglio 2001. Credo che si tratti, anche stavolta, di una spia di rapporti profondamente malati fra potere elettivo e apparati di sicurezza.
La sera di sabato 21 luglio tu eri alla Diaz, e quanto è successo, anche dopo, lo hai raccontato in un bel libro (Noi della Diaz). A otto anni di distanza cosa ti rimane ancora dentro di quella allucinante esperienza?
Sul piano personale, resta l'amarezza di un cittadino che il 23 luglio 2001, quando arrivò l'ordine di scarcerazione e lasciò l'ospedale nel quale era ricoverato e detenuto, si aspettava dal proprio paese una reazione proporzionata alla gravità dei fatti, reazione che non c'è stata. Nessuno, al vertice dello stato, ha mai pensato di chiedere scusa alle vittime di abusi e violenze. I responsabili di quelle violazioni non sono stati trattati come avrebbero meritato, a danno della credibilità delle istituzioni e con effetti diretti sulla cittadinanza, legittimata a nutrire poca fiducia verso le forze di polizia e la capacità degli organi costituzionali di proteggere i propri cittadini dagli abusi eventualmente commessi da uomini dello stato. A otto anni di distanza, devo riconoscere di avere cambiato una serie di idee e valutazioni sul mio paese. L'Italia è un paese meno civile, vitale e quindi libero di quanto pensassi la sera del 23 luglio. E' un paese che accetta l'esistenza di centri di potere intangibili; è anche un paese incline al conformismo e al servilismo, specialmente nel mondo politico e nei media.
Tu appartieni al comitato "Verità e Giustizia per Genova", che sin dallo stesso 2001 si batte per far emergere una realtà dei fatti che, malgrado le innumerevoli denunce e la inequivocabile documentazione, soprattutto composta da materiale-video, continua ad essere messa a tacere con protervia ed estrema disinvoltura. Non viene la voglia di lasciar perdere?
Quando abbiamo fondato il Comitato, pensavamo soprattutto a due cose: la prima, svolgere un'azione di informazione diretta su quanto accaduto a Genova al G8, in modo che tutti potessero farsi un'opinione compiuta, attraverso la conoscenza dei fatti e il confronto delle opinioni; la seconda: raccogliere fondi per sostenere la tutela legale nei procedimenti penali in corso. Credo che siamo riusciti ad attenerci a queste consegne. Abbiamo raccolto decine di migliaia di euro, utilizzate per l'enorme mole di documentazione che è stato necessario raccogliere e organizzare. E anche sul piano dell'informazione e dell'azione politica credo che abbiamo svolto un buon lavoro: nonostante la pavidità dei maggiori media e l'imbarazzo che ha caratterizzato il ceto politico di centrosinistra sui nostri temi, credo che fra i cittadini la consapevolezza sulla realtà realtà dei fatti di Genova sia molto più diffusa di quanto non si pensi, grazie a migliaia di incontri pubblici e iniziative, nonché la produzione di materiali d'informazione d'alta qualità. Noi, con altri, abbiamo partecipato con grande impegno a questo lavoro di base. La voglia di lasciar perdere, più che di fronte all'esito di certi processi, affiora quando vedi l'indifferenza o il fastidio di chi dovrebbe affiancarti in questa lotta, che ha un valore morale, culturale e politico più che giudiziario. Penso ad alcuni episodi specifici: il no alla commissione parlamentare d'inchiesta dovuto alle improvvise e vili defezioni di alcuni deputati radicali e dell'Italia dei Valori meno di due anni fa; la promozione di Gianni De Gennaro a capo di gabinetto del ministro Amato; gli applausi di quest'estate a Gianfranco Fini alla Festa dei Democratici a Genova quando si è felicitato per la conferma dell'assoluzione di Mario Placanica, il carabiniere che avrebbe ucciso Carlo Giuliani, commentando una sentenza che in realtà infliggeva una pena pecuniaria allo stato italiano per la gestione inadeguata dell'ordine pubblico. In momenti del genere può venire la voglia di lasciar perdere, ma poi prevale un'altra riflessione: qualunque cosa accada, a gruppi come il nostro spetta un lavoro di minoranza; il nostro compito è dire la verità, senza riguardi per alcuno. I più preferiscono ignorarci e fare finta di nulla. Ma ci sono altri che ci ascoltano e quindi vale la pena fare quello che facciamo: in questo modo si può sperare di scalfire la cappa di apatia che ci asfissia. Nessuno potrà dire di non avere saputo.