E' un vero peccato che il processo in corso a Genova contro De Gennaro e Mortola si svolga a porte chiuse e non sia possibile seguire nei dettagli l'intera discussione. L'ex capo della polizia, oggi al vertice dei servizi segreti, e il funzionario che nel 2001 dirigeva la digos di Genova, oggi questore vicario a Torino, sono accusati di avere indotto l'ex questore Francesco Colucci alla falsa testimonianza durante il processo Diaz, chiuso nel novembre scorso con 13 condanne e 16 assoluzioni. E' un peccato, e anche un motivo d'inquietudine, perché le intercettazioni telefoniche che è stato possibile ascoltare e leggere, tracciano un profilo dei modi, dello stile, del temperamento di personaggi di primo piano della polizia di stato assolutamente allarmanti.
Le richieste di pena dei pm - due anni per De Gennaro, un anno e quattro mesi per Mortola - saranno valutate dal tribunale nei prossimi mesi, ma la sentenza, quale che sia, non potrà cancellare il senso di imbarazzo e di preoccupazione suscitato dalle conversazioni pubblicate e più in generale dall'atteggiamento tenuto dai vertici di polizia sia durante il processo Diaz sia durante questa penosa coda. Ancora una volta manca una netta assunzione di responsabilità. Ancora una volta si sceglie la via dell'opacità, non si danno spiegazioni all'opinione pubblica, non si fa chiarezza su qual è, ai vertici degli apparati dello stato, il reale grado di lealtà all'etica democratica. Stando alla ricostruzione dei pm, che hanno contestato all'ex questore di Genova la falsa testimonianza sull'episodio della presenza alla scuola Diaz del portavoce della polizia dell'epoca, Roberto Sgalla, risulterebbe evidente che l'imputato De Gennaro fosse al corrente della spedizione punitiva realizzata nella notte del 21 luglio 2001.
E' su questo punto, assolutamente decisivo per la ricostruzione della vera catena di comando e quindi delle responsablità per la mattanza, che sarebbe necessaria una risposta chiara e pubblica. I cittadini avrebbero diritto di conoscere tutto quanto avvenne quella notte: solo così sarebbe possibile cancellare - almeno in parte - la macchia che da quel giorno infanga l'immagine della polizia di stato. Restano del tutto oscure anche le responsabilità politiche, che è stato impossibile in questi anni indagare, ed è oggi estremamente grave, e fuori da ogni logica civile, che esponenti del governo, di fronte alle richieste di pena dei pm, dichiarino come ha fatto il ministro Gianfranco Rotondi che «non si può umiliare lo stato criminalizzando chi lo difende».
La pubblica accusa sta semplicemente facendo la sua parte, com'è necessario e doveroso in un regime democratico che garantisce la separazione dei poteri. Stiamo oltretutto parlando di una vicenda delicata quanto torbida e che investe la credibilità democratica della polizia di stato, gravemente compromessa nelle giornate di Genova, come dimostrano sia l'esito (29 condanne fra caso Diaz e caso Bolzaneto) sia l'andamento dei processi seguiti alle tragiche giornate del G8 genovese.
Noi continuiamo a pensare che la ricerca della verità stia al primo posto fra gli obiettivi che una democrazia deve prefiggersi di fronte a eventi tragici come quelli avvenuti nel luglio 2001: l'uccisione di un ragazzo è stata invece archiviata senza nemmeno un dibattimento e i processi aperti contro alcuni appartenenti alle forze dell'ordine sono stati ostacolati con rabbia e ostinazione. Questo processo è un nuovo capitolo di una vicenda sempre più inquietante e che non può essere considerata come una semplice appendice di storie passate. Se ai vertici degli apparati di sicurezza e dello stato si continuerà a preferire l'oscurità di un processo a porte chiuse, il diniego di spiegazioni pubbliche, il rifiuto di un'assunzione esplicità di responsabilità, faremo ulteriori passi avanti nella direzione di una democrazia autoritaria.
Vittorio Agnoletto, ex portavoce Genoa Social Forum
Lorenzo Guadagnucci, Comitato Verità e Giustizia per Genova