La lettura delle motivazioni della sentenza, emessa il 14 luglio scorso, consente di mettere a fuoco, meglio dei verdetti - solo 15 imputati su 45 sarebbero stati condannati - gli eventi che si consumarono a Bolzaneto nel luglio 2001.
Le indagini furono difficilissime per l'omertà, si legge nelle 451 pagine che ricostruiscono la vicenda. Tratto sottolineato anche dai pm che pronunciarono la requisitoria Diaz. Avere a che fare con un cittadino in divisa, per la pubblica accusa, è arduo come avere di fronte uno stupratore e/o un mafioso. Un «limite» che, per i giudici, è attribuibile a un «malinteso spirito di corpo» grazie al quale non fu possibile identificare i responsabili delle vessazioni provate in dibattimento. Non sarebbe stato possibile dare nome a Er Tigre, una guardia carceraria che si contraddistinse per le angherie, né al suo commilitone altoatesino "specializzato" in ingiurie a detenuti di lingua tedesca.
E ci furono, conferma la sentenza, in quelle notti e quei giorni nella caserma-prigione di Bolzaneto, a nord di Genova, «espressioni di carattere politico già di per sé intollerabili sulla bocca di appartenenti alle forze di polizia di uno stato democratico che pone il valore del nazifascismo tra i valori della propria Costituzione». E in quel contesto, con ragazzi costretti faccia al muro, mezzi nudi, gambe divaricate e mani sulla testa, quelle parole furono «tanto più ripugnanti e vessatorie». Insulti di ogni tipo, da quelli a sfondo sessuale, diretti in particolare alle donne a quelli razzisti, a quelli di contenuto politico. Minacce, che variavano da quelle di percosse e, addirittura, di morte, a quelle di stupro, costrizioni a pronunciare frasi lesive della proprie dignità personale, e frasi o inni al fascismo, al nazismo, a Mussolini e Hitler, fino a sfilare lungo il corridoio facendo il saluto romano e il passo cosiddetto dell'oca, a ascoltare il motivo di Faccetta nera, suonato forse con un telefono cellulare, e frasi antisemite e ineggianti ai regimi fascista e nazista e alla dittatura del generale Pinochet».
E Perugini sapeva. L'ex vicequestore, condannato a 2 anni e 4 mesi, il poliziotto che fu immortalato in una strada di Genova mentre si apprestava a scalciare un minorenne tenuto fermo da altri agenti, «aveva la sicura consapevolezza di quanto accadeva nella struttura». E non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Codice penale, articolo 40. Chi s'è preso la pena più alta, 5 anni, è un ex ispettore di polizia penitenziaria, Antonio Gugliotta. A lui sono stati contestati l'abuso di ufficio continuato e di autorità, i reati continuati di percosse, lesioni, ingiurie, minacce e violenze private e alcuni episodi specifici. Era lui il soggetto preposto ad assicurare l'ordine e a garantire il rispetto dell' incolumità fisica e della dignità delle persone ristrette in tale ambito. Quindi, «Gugliotta ha male utilizzato il potere conferitogli consentendo ai sottoposti di compiere abusi e violenze di ogni genere, talora perpetrandoli personalmente, e contribuendo al clima greve e oppressivo in cui le vittime erano prive di difese ed esposte alla prepotenza e violenza di coloro che avrebbero dovuto tutelarne invece la sicurezza personale». Reati «inconcepibili in un sistema democratico» ma che «la mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di "tortura" (l'Italia è inadempiente rispetto agli obblighi internazionali, ndr)», ha costretto i pm a «circoscrivere le condotte inumane e degradanti». Condotte, precisano i giudici, «che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata nelle convenzioni internazionali, e che questo collegio ha ritenuto pienamente provate».
Sui fatti della Diaz, intanto, Famiglia cristiana rilancia la questione della commissione di inchiesta. E lo fa con un editoriale di Adriano Sansa, magistrato ed ex sindaco di Genova che si chiede, negli stralci che pubblichiamo, «perché non si sono attuati i mezzi che la legge stessa prevede, e la responsabilità politica e morale impongono? Se tanti operatori e funzionari hanno commesso crimini, qualcuno, pur al di fuori del processo deve rispondere». Invece, «nessuno ha pagato, tra quelli che dirigevano a più alti livelli: incapaci, distratti, indegni. Anzi tutti sono stati promossi, alcuni a ruoli di elevatissima responsabilità». E, ancora, «nessuno chiede scusa». «Forse così il Governo pensa di apparire "amico della polizia". Ma ne distrugge l'immagine tra i cittadini, ne insulta la parte leale. L'inchiesta parlamentare è l'ultima possibilità per fermare finalmente il tradimento di Genova». Il noto statista Gasparri, capogruppo Pdl, chiarisce al magistrato: «Si rassegni, non si farà mai».
Poche ore prima, sempre mercoledì, il sostituto procuratore generale della Cassazione, Alfredo Montagna, nell'udienza sugli scontri avvenuti di Milano, l'11 marzo 2006 a Corso Buenos Aires, aveva affermato che «la polizia ha una cultura deviata delle indagini perchè pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell'ambito della stessa manifestazione». Tuttavia la suprema corte ha respinto i ricorsi degli antifascisti.