I giudici del processo di Genova avevano la grande opportunità - l'ultima - di difendere un residuo brandello di «dignità», chiamiamola così, del nostro Paese. L'hanno perduta, e con essa hanno perduto anche la propria, di dignità. La sentenza per i fatti della Diaz è vergognosa, come tutti i commentatori equanimi l'hanno definita, per questo. Perché assolve l'imperdonabile. Legittima, con i sacri crismi della procedura giurisdizionale, l'inaccettabile. E in questo arreca un vulnus - produce una lacerazione non solo giuridica, ma morale e sociale - forse addirittura più grave dei gravissimi fatti stessi.
A Genova, a Piazza Alimonda, in corso Italia e poi, in un crescendo di accanimento e di ferocia a Bolzaneto e alla Diaz, era avvenuto qualcosa di ben più grave di un semplice eccesso nella gestione dell'ordine pubblico. Di una malaccorta gestione da parte dello Stato del proprio «monopolio della forza». A Genova, di fronte allo sguardo di tutti, su un palcoscenico globale, in quelle maledette giornate di luglio del 2001, era venuto alla superficie, e si era manifestato un sottofondo infetto del nostro ordinamento statuale, impastato di arbitrio e di violenza, di ferocia cinica e di disprezzo di ogni regola: quello che Norberto Bobbio aveva a suo tempo definito il «potere invisibile». Cioè una sfera occulta del potere, sottratta al controllo democratico, addestrata e predisposta a maneggiare la vita dei suoi stessi cittadini con disinvolta discrezionalità, brutale e protetta, impasto di «corpi separati dello stato» e di professionisti della provocazione, di servizi cosiddetti deviati e di schegge coperte del neofascismo di nicchia.
Quel secondo livello, che si configurava come un «doppio-Stato», era stata una costante della vicenda italiana, aveva sotteso i tumultuosi decenni della strategia della tensione e del terrorismo stragista, e prima il delicato passaggio al centro sinistra (chi si ricorda lo scandalo del Sifar?), o poi, ancora, il fatidico Settantasette (ricordate l'assassinio di Giorgiana Masi)... Ma era rimasto, appunto, invisibile. Occulto. Avvolto nel cono d'ambra delle azioni coperte perché inconfessabili. Pubblicamente intollerabili. A Genova, invece, per la prima volta, quella pratica e quell'apparato si sono mostrati alla luce del sole, senza pudore, in una grande rappresentazione crudele. Tutti gli ingredienti del «potere invisibile» sono stati ostentati: la tortura, l'accanimento sui corpi, il macello di massa nella scuola-dormitorio, il sangue e le teste spaccate a freddo, l'accanimento su gente inerme che dormiva e l'irrisione dei feriti, il coro osceno degli aguzzini e le bocche cucite delle vittime. Nulla è stato risparmiato allo sguardo. E ora, a sette anni e mezzo di distanza, dopo un lungo iter processuale, quel secondo livello infetto della nostra statualità riceve l'imprimatur e la tacita legittimazione del terzo potere dello Stato. Di quel potere giudiziario che dovrebbe, per sua natura, funzionare come strumento di controllo sugli altri due. Per questo la responsabilità dei giudici di Genova è enorme. Si potrebbe dire che essi hanno contribuito, per questa via, a mutare la «costituzione materiale» del nostro Paese; a minarne i fondamenti (almeno formali) di legalità in un momento nel quale va maturando in ampi settori delle forze di governo e dei loro apparati una inquietante tentazione all'uso muscolare delle proprie prerogative. Alla forzatura, nel pieno di una crisi che si preannuncia devastante, dei limiti stessi dello «stato di diritto» per mettere in gioco il peggior repertorio del «governo in tempi difficili». Perché l'abbiano fatto, quei giudici - perché si siano decisi a una così evidente umiliazione della loro funzione - è difficile dirlo. Probabilmente non per convinzione politica. Né necessariamente per adesione ideologica alle forze di governo, o per odio culturale nei confronti del coacervo di movimenti che fu «vittima sacrificale» a Genova. Forse solo per «mancanza di coraggio». Per voglia di quieto vivere. Per desiderio di seguire la linea di minor resistenza. Ma il punto è proprio questo: che di mancanza di coraggio (della pavidità di coloro che ne dovrebbero essere i custodi) muoiono le democrazie, forse più ancora che della violenza dei loro falsi servitori.