La pessima sentenza di Genova per i pestaggi della Diaz imponeva che subito dovessero venire dalle istituzioni, dalla polizia, dalla politica chiari segnali rassicuranti della fedeltà alla Costituzione delle forze dell'ordine. Per un intero giorno, il silenzio. Un silenzio non imbarazzato, non pudico, ma quasi soddisfatto. Come se l'esito minimalista del processo genovese, che si sovrappone alla mediocre e ambigua conclusione del dibattimento per le torture di Bolzaneto, potesse chiudere senza danno - "e finalmente" - la ferita profonda che i giorni del G8 hanno aperto tra lo Stato e la società, tra le istituzioni e una giovane generazione di cittadini. In questo assordante e colpevole silenzio, ha preso la parola soltanto Vincenzo Canterini, il comandante del Reparto Mobile, della Celere di Roma, condannato a quattro anni di carcere (tre cancellati dall'indulto).
Canterini, il capo delle tre squadre del VII nucleo antisommossa che, per prime, invasero la Diaz e, armate dei micidiali manganelli "tonfa" usati al contrario, bastonarono decine di ragazzi e ragazzi, ferendone 82 e riducendone tre in fin vita. Canterini ha scritto ai suoi "ragazzi" una lettera che è una sfida alla Costituzione, un oltraggio alla "disciplina" e all'"onore" che dovrebbero orientare, per la Carta, i servitori dello Stato.
È una rivendicazione di uno spirito di corpo omertoso ("Io e voi sappiamo benissimo che cosa è successo; ci siamo guardati più volte negli occhi"). È un avvertimento alle gerarchie che avrebbero abbandonato il "Reparto" al loro destino ("Abbiamo perso una battaglia; ma quante volte si siamo sentiti umiliati e forse traditi"). È soprattutto la riproposizione delle menzogne disseminate, nel corso di sette anni, per impedire l'accertamento della verità.
Scrive Canterini: "Quante volte chi ci aggrediva pensava di averci sopraffatto e poi si accorgeva che invece eravamo vivi e fieri di noi (?) Lasciamo tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni". La verità è che nessuno ha aggredito, nella Diaz, Canterini e i suoi "ragazzi". La verità è che nella Diaz non c'è stata nessuna colluttazione, non fu trovato nessun passamontagna, nessun bastone, nessuna catena, nessun maglio spaccapietre (come accreditò una sua relazione di servizio). La verità è che nessuno dei picchiatori di Canterini fu ferito (anche questo giurò) e i referti medici furono tutti manipolati.
La verità - la sola verità che pessime sentenze, miopi convenienze politiche, opportunisti istituzionali non potranno cancellare - è che quella notte di luglio Canterini e i suoi "ragazzi", forse dopo essersi guardati negli occhi, si abbandonarono a un pestaggio brutale di uomini e donne indifesi e inermi. "Facciamogli vedere che alla lunga saremo noi a vincere", è l'esortazione conclusiva di Canterini.
È un'esortazione anche per noi. Se vince un poliziotto come Canterini perdiamo tutti.
Dopo aver letto il comandante dei nuclei antisommossa sappiamo di non poterci affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie. Sappiamo di aver bisogno di difendere con intransigenza le garanzie offerte dalla Costituzione e i diritti assicurati dalla legge, quelli calpestati a Genova. Sappiamo di dover ancora pretendere di sapere (nonostante la giustizia si sia mostrata timida e impotente) che cosa, come, perché sono state sospese a Genova le regole e l'umanità; con la responsabilità di chi è nato quel "vuoto di diritto" che ha consegnato la vita delle persone, spogliata di ogni dignità, alla violenza arbitraria, disumana che Canterini ha l'arroganza di rivendicare.
Una domanda, però, pretende una risposta subito. Canterini e i suoi "ragazzi" possono ancora restare nei ranghi della polizia?