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Quel senso di ingiustizia che torna dopo sette anni
Marco Imarisio
Fonte: Corriere della Sera, 14 novembre 2008
14 novembre 2008

«Vergogna, vergogna». Come sette anni fa, davanti ai cancelli di quella scuola. Con le stesse persone, gli stessi cori, in più soltanto la stanchezza e la frustrazione di una attesa lunghissima e vana. Mancano i lampeggianti e il cordone di carabinieri dagli occhi spaventati che tenevano lontano i no global. Il resto è uguale a quella notte del 21 luglio 2001. L'inizio e la fine, un cerchio che si chiude perfettamente con scene e sgomento identici. La rabbia, «assassini, assassini», qualcuno che cerca di lanciarsi in avanti, un caldo folle, sudore e lacrime sui volti delle vittime definitivamente convinte di aver sbagliato ad affidarsi alla giustizia. Oggi come allora. Due Italie, una sempre più forte dell'altra, come dimostra il sorrisino di superiorità del giudice Barone al partire dei cori, mentre si ritira dopo la lettura del dispositivo che commina tredici condanne, quelle che non contano nulla, 36 anni contro i 108 invocati dall'accusa, sedici assoluzioni. E alle vittime lo sfregio di risarcimenti irrisori (una media di 4.000 euro) rispetto alle richieste delle parti civili (20.000 euro a testa). La sentenza fa a pezzi le tesi dell'accusa. Avvalora in pieno la linea fin dall'inizio proposta dal Viminale, quella delle poche mele marce in un cesto florido e sano. Le condanne sono acqua fresca, sempre e comunque mitigate. Lasciano intravedere una certa riluttanza nel propinarle, e la riduzione ai minimi termini della gravità dei fatti. Ad esempio, il vicequestore Michelangelo Fournier, quello della «macelleria messicana», prende due anni comprensivi di non menzione, con le attenuanti prevalenti sulle aggravanti. Condannato, ma giusto un poco. I magistrati avevano strutturato la loro requisitoria in tre parti.

Il VII Reparto mobile di Vincenzo Canterini, i funzionari accusati di aver firmato falsi verbali di perquisizione, sequestro e arresto, compresi quelli riguardanti le celebri molotov false, e i vertici apicali. È sempre apparso chiaro che il processo si sarebbe giocato sulla parte centrale. Il «taglio» del collegio giudicante è stato draconiano. Colpita solo la base della piramide. Gli unici a pagare davvero per la vicenda delle molotov false, che dovevano essere la prova regina della pericolosità dei 93 no global arrestati alla Diaz, sono stati i meri esecutori della parte iniziale dell'inganno, i soli riconosciuti. L'autista Michele Burgio, alla guida del defender che porta le false prove alla Diaz, il vicequestore Pietro Troiani, ex collega di Canterini, che le prende in consegna. Assolta la pedina seguente, il vicequestore Massimo Di Bernardini, che nel domino dell'accusa costituiva l'anello di congiunzione con la catena di comando di quella notte. Ma le anomalie nella gestione delle molotov cominciano infatti dopo che Troiani se ne spossessa, in un susseguirsi di comportamenti che è lecito definire irragionevoli. Ogni eventuale legame superiore è stato invece reciso: le false molotov furono una libera iniziativa di due oscuri gregari. La prova della colpevolezza dei vertici apicali di quella notte, Francesco Gratteri e Giovanni Luperi, non si è mai formata durante il processo. Ma le firme degli altri funzionari su verbali che attestano il falso sono sempre sembrate l'ostacolo più massiccio alla assoluzione di tutto il gruppo dirigente. In quattro anni e 170 udienze, la difesa non ha mai prodotto un teste che sostenesse la veridicità del contenuto di quei verbali. Nessun testimone. Ma anche qui la scelta dei giudici è stata minimale: l'élite dei funzionari italiani di Polizia si è fatta buggerare in massa dalle poche mele marce dei ragazzi di Canterini, ai quali va evidentemente riconosciuta una sagacia non comune. Fa male vedere un vecchio che urla e piange. Arnaldo Cestaro, 70 anni, una spalla rotta e tre operazioni per rimetterla a posto, inveisce contro lo Stato italiano, in piedi su una poltrona dell'aula bunker. Accanto a lui le altre vittime di quella notte, Lena Zulke, la ragazza tedesca che divenne l'immagine simbolo, una maschera di sangue portata via in barella. E poi tutti gli altri, un avvocato maturo e compassato come Vittorio Lerici che vorrebbe buttare la toga «per la delusione», e quel coro martellante, «vergogna, vergogna», i reduci no global attoniti, Vittorio Agnoletto spaesato come non mai. Il caldo che pulsa alle tempie, le urla, le ferite ancora aperte, il senso di ingiustizia. Come quella notte.