Giovedì sera ero a una iniziativa di un bellissimo circolo Arci del bolognese. Presentavamo con l'autore il bel libro di Mario Portanova, Inferno Bolzaneto . E proprio dalla sentenza sulle torture di Bolzaneto voglio partire. Perché mi dichiarai contrario (lo sosterrei anche oggi, nonostante tutto) alle critiche che vennero sollevate su quella decisione del tribunale: condannati solo un terzo degli imputati, condanne fortemente ridotte rispetto alle richieste dei pubblici ministeri. Argomentai, allora, che la rilevanza non stava nel numero di anni erogati: in ogni caso, tra indulto e prescrizione, nessuno avrebbe scontato neppure un'ora di carcere. Stava nella qualità: erano stati assolti quelli della bassa truppa, e condannati invece gli appartenenti al quadro intermedio, che le mostruosità commesse nella caserma avevano quanto meno permesso, se non addirittura ordinato e praticato. Una condanna, quindi, al principio di responsabilità, che è tanto più forte quanto più si sale nella scala gerarchica.
Venne a sostegno della tesi da me sostenuta la requisitoria dei coraggiosi pubblici ministeri che si sono occupati della Diaz. Lì la bassa truppa non era neppure inquisita, perché gli autori materiali della mattanza non erano stati riconosciuti in quanto travisati da caschi, sciarpe, fazzoletti; cioè i capi non avevano voluto fornire le generalità dei sottoposti, assolutamente noti in quanto facenti parte dei reparti da loro diretti. No, le richieste di condanna, quattro anni in media, riguardavano inquisiti che andavano dai quadri intermedi in su, fino ai gradi più alti della polizia. Mancavano solo il capo di allora, De Gennaro, e il suo vice, il prefetto Arnaldo La Barbera, che era morto nel 2002.
Il giudizio che mi permisi di avanzare era che la sentenza di Bolzaneto e la richiesta di condanne per la Diaz chiarivano le responsabilità di appartenenti alla polizia, ma che restavano fuori dalle inchieste i reparti speciali dei carabinieri, che pure a Genova non erano stati meno responsabili: un omicidio, cariche ingiustificate e violente al corteo di via Tolemaide, blindati lanciati a folle velocità contro i manifestanti, trattamenti disumani all'interno del Forte San Giuliano, "aggiustamenti alla pratica del morto", cori fascisti per l'accoglienza a Placanica al suo rientro serale, e via degradando.
Poi, dall'armadio, è uscita la sentenza vergogna. Capovolta una logica: qualche condanna alla bassa truppa (in quel contesto lo sono anche i quadri intermedi), assoluzione piena «perché il fatto non sussiste» nei confronti dei quadri alti e altissimi. Travolta qualunque teoria in tema di livelli di responsabilità. Riproposizione dello scandalo dell'impunità (un ragazzo, al Circolo Arci, traduceva in impunibilità). Una squalificata estensione dell'insopportabile e, si spera, incostituzionale lodo Alfano. Ce n'è abbastanza per vedere ridotta la propria fiducia nelle istituzioni e per dubitare delle garanzie democratiche del paese.
Mi permetto solo di ricordare alcuni dettagli su quella triste vicenda. Il prefetto La Barbera, integerrimo poliziotto antimafia e autore di arresti eccellenti, arriva a Genova sabato 21 luglio 2001 alle 16.15. I manifestanti stanno rientrando, integri e pestati, ai luoghi di provenienza, qualcuno è in ospedale, un bel numero a Bolzaneto, qualcuno nelle patrie galere. La "brillante" operazione di disordine pubblico è compiuta. Che ci viene a fare, a Genova, a quell'ora, il numero due della polizia? E' una sua iniziativa? De Gennaro non lo sa? «Ma a chi vogliamo darla a bere questa fandonia», ha detto giustamente in tribunale un avvocato della difesa al carabiniere Cavataio, autista del defender sul quale c'è chi spara a Carlo, che sostiene di non aver sentito gli spari! Briefing concitato in questura e assunzione del comando da parte di La Barbera. Che cosa succede di rilevante a Genova, dopo quell'ora? La "perquisizione legittima" alla Diaz. E per evitare che la si potesse considerare una operazione di normale "disordine", con La Barbera alla Diaz ci vanno proprio tutti. Poi, quando c'è l'irruzione, La Barbera se ne va, forse per evitare che il suo prezioso curriculum venga macchiato. Ma gli altri restano, condividono, discutono, si gingillano con il sacchetto azzurro con dentro le molotov, entrano e escono dalla scuola. Ma «il fatto non sussiste», sentenzia il collegio giudicante.
«Il capo sarà contento», dice al telefono Colucci, l'allora questore di Genova, che in tribunale smentisce quello che aveva sostenuto in parlamento nel 2001, e cioè che De Gennaro fosse al corrente di tutto. Colucci ha guadagnato recentemente un alto incarico prefettizio, sollevando persino le proteste dell'associazione dei prefetti. De Gennaro, oltre alle varie ulteriori promozioni, sembra aver guadagnato un rinvio a giudizio per istigazione alla falsa testimonianza. Sembra, perché se ne discuterà a metà dicembre. Sembra, ma l'aria che tira induce a pensare che non debba tornare a occuparsi di questa immondizia.