Caro direttore,
circa sette anni fa, quando mi capitò di uscire dalla scuola Diaz legato a una barella, sanguinante, con le braccia "ingessate" alla meglio con dei grossi cartoni, mi sentivo un cittadino umiliato e offeso. Avevo appena trascorso un paio d'ore in balìa di un potere brutale e incomprensibile, in mezzo ai pianti e alla disperazione di qualche decina di persone. Ricordo il mio arrivo in una cameretta dell'ospedale Galliera, dopo una notte passata al pronto soccorso fra esami e ricuciture della pelle, e la sorpresa d'essere accolto da due giovani poliziotti. Loro risposero al mio sguardo interrogativo: "Siamo qui per te". Ero in arresto. Rammento lo spavento: non riuscivo a immaginare per quale motivo mi trovassi in quella condizione, e il bello è che loro - i poliziotti - ne sapevano quanto me. Lo spavento passò presto, non appena arrivarono i magistrati a interrogarmi e a notificarmi i motivi del provvedimento: associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, resistenza aggravata a pubblico ufficiale, detenzione illegale di armi. Erano accuse così stravaganti che mi rincuorai. Fui scarcerato, ma ero ancora un cittadino umiliato e offeso, a quel punto però in cerca di giustizia e di un risarcimento morale.
Cominciò così, mentre lasciavo l'ospedale, la mia piccola battaglia civile, che dura tuttora. Sono passati sette anni e in mezzo ci sono - cito alla rinfusa - qualche libro, la nascita del comitato Verità e Giustizia per Genova, qualche centinaio di serate in giro per l'Italia, un processo lungo quattro anni seguito come parte civile. Ebbene, sono ancora un cittadino umiliato e offeso, più offeso oggi di allora. Il risarcimento morale che agognavo, è diventato una chimera. All'umiliazione iniziale si è aggiunto un moto di indignazione che non si placa.
La sentenza dell'altra sera alla fine non mi ha sorpreso. I giudici hanno riconosciuto che ci furono le violenze e i falsi, ma hanno scelto di salvare tutta la catena di comando. Ne prendo atto. Quel che cercavo fin dal 2001, e quel che serviva per il bene comune, non poteva venire dalla magistratura. Tocca in primo luogo al parlamento, ai ministri, ai presidenti del consiglio e della repubblica intervenire in casi del genere, quando cioè dipendenti dello stato, con una divisa indosso, cancellano i diritti costituzionali e calpestano la dignità dei cittadini, violandone l'integrità fisica.
In questi anni non abbiamo avuto niente di quel che era necessario: un gesto di ripudio per l'operazione Diaz, la sospensione dei dirigenti imputati, le scuse a nome dello stato. Lo stesso è avvenuto per le torture di Bolzaneto, per le violenze di strada. L'uccisione di Carlo Giuliani è stata addirittura archiviata senza processo, con la pretesa di farci credere che Carlo sarebbe stato ucciso per via di un sasso vagante che avrebbe deviato un proiettile sparato in aria. In compenso 25 persone accusate di devastazione e saccheggio hanno ricevuto condanne pesantissime, a fronte di fatti e contestazioni assai meno gravi di quanto avvenuto alla Diaz o a Bolzaneto.
La sentenza Diaz ha chiuso il cerchio: a questo punto abbiamo molte verità e ben poca giustizia. Sul piano personale ho perso la mia battaglia, o meglio l'ho cambiata: non ci sono più "risarcimenti" da cercare, ma nuovi obiettivi da raggiungere. Il "caso Genova G8", nel suo complesso, insegna che la democrazia è in pericolo. La polizia di stato nel luglio 2001 si coprì di sangue e di fango, macchie che si potevano almeno in parte cancellare, e che oggi sono invece indelebili. Il vertice di polizia è passato indenne dai processi, al prezzo però della perdita di dignità: l'ostacolo all'azione della magistratura, la scelta di non presentarsi in aula, le "promozioni preventive" concordate col potere politico hanno privato gli imputati e i loro superiori della credibilità che dovrebbe possedere chiunque ricopra così alti incarichi. Quanto sono affidabili forze dell'ordine che portano un simile marchio d'infamia? Che futuro può avere una democrazia che nel corso del tempo allarga, anziché risarcire, una ferita come quella che si aprì nelle tragiche giornate di luglio?
In queste drammatiche condizioni nessuno di noi, qualunque sia il suo ambito di azione sociale, civile, culturale, politica, può tirarsi indietro. Siamo in emergenza, tutti umiliati e offesi, oggi più che nel 2001: potremo evitare il peggio solo se le forze sane del paese, quelle che erano a Genova e quelle che non c'erano, sapranno prendere la parola e guidarci fuori da questa angosciante palude.
Lorenzo Guadagnucci