Tra due giorni la prima sezione del tribunale di Genova emetterà finalmente la sentenza di primo grado per uno dei fatti più tristi della recente storia italiana, l'irruzione nella scuola Diaz durante il vertice G8 del 2001. Gli imputati sono 29 tra agenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato. Per loro i pubblici ministeri hanno chiesto oltre 109 anni complessivi di carcere. Ne parliamo con Lorenzo Guadagnucci, del Comitato verità e giustizia per Genova.
Cosa vi aspettate da questa sentenza?
Sul piano strettamente giudiziario, l'esperienza ci insegna che in questi casi si arriva a sentenze che nella migliore delle ipotesi possono definirsi ibride. Ci saranno assoluzioni e condanne, è fin troppo banale prevederlo. Chiaramente questo è un processo più delicato dei precedenti, perché vede tra i suoi imputati i vertici stessi della polizia italiana.
Come giudica il fatto che in dibattimento nessuno dei grandi accusati si sia presentato? Un nome per tutti, quello di Francesco Gratteri, oggi ai vertici dell'antiterrorismo.
Penso sia una cosa scandalosa, una delle cose che mi fanno dire che, comunque vada il processo, usciremo a testa alta da quell'aula solo noi che siamo la parte civile. Altissimi dirigenti dello Stato - e in particolare delle forze di polizia, che sono un corpo ben particolare dello Stato - di fronte a un processo del genere dovrebbero comportarsi come tali, assumersi tutte le loro responsabilità, lasciando gli incarichi ricoperti e collaborando con la giustizia, rispondendo alle domande in tribunale. Stiamo parlando di un fatto storico che ha coperto di fango la polizia di Stato. C'è il dovere di dare spiegazioni alla cittadinanza. Invece si è scelta un'altra strada, quella di fare gli imputati comuni, dove le decisioni sono dettate dalla necessità di cavarsela. Ecco allora che ha senso non presentarsi in aula, perché così si ostacola il lavoro dei magistrati. Ma è una scelta incompatibile con il ruolo che queste persone ricoprono. Incompatibile per loro e per noi cittadini.
Manca nel codice penale italiano il reato di tortura. Avrebbe aiutato se ci fosse stato?
Nel caso specifico non so, bisognerebbe fare una valutazione sul piano strettamente normativo. Certo la differenza avrebbe riguardato il fatto che con il reato di tortura non ci sarebbe stata la possibilità di prescrizione. Ma voglio dire un'altra cosa: quel che credo alla vigilia della fine del processo è che in tutta questa vicenda la parte giudiziaria gioca il ruolo meno importante. Credo che di fronte alla caduta di valori democratici avvenuta nel 2001, di fronte allo scempio dei corpi ma anche delle leggi compiuto dalle forze di polizia, una reazione doveva esserci soprattutto ad altri livelli, a livello etico-professionale e a livello politico. Ci volevano delle scuse da parte dello Stato, la rimozione di tutti i dirigenti dell'operazione, e questo indipendentemente dai processi. Da parte della politica ci voleva una verifica di quel che sta accadendo nelle forze di polizia. Dunque una commissione d'inchiesta parlamentare, ma anche una necessaria riforma democratica della polizia.
Abbiamo assistito a un processo che ha visto coperture di ogni tipo e uno spirito di corpo indegno di uno Stato di diritto. Ma si è sentita una differenza tra i vari governi?
Purtroppo no. Dico purtroppo perché molti di noi avevano a suo tempo in qualche modo collaborato affinché nel programma dell'Unione fosse inserito il progetto di istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti di Genova. Ma non c'è stata differenza tra i diversi governi, tanto è vero che la pietra tombale sulla possibilità di sanare quella ferita sul piano politico è stata messa proprio dal governo Prodi nel giungo 2007 - nel pieno del clamore suscitato dalle deposizioni di Michelangelo Fournier in tribunale, che parlava di "un'operazione di macelleria messicana" - con la nomina di Gianni De Gennaro a capo di gabinetto del Ministero dell'Interno. Lì abbiamo capito che era davvero finita.