Lorenzo Guadagnucci è portavoce del Comitato Verità e Giustizia per Genova perché è una "vittima per caso" di torture alla Diaz, colpevole di essere un giornalista in cerca di un posto per dormire a zero stelle, e di aver steso il sacco a pelo in una scuola genovese nella notte sbagliata. Dopo la sentenza di Bolzaneto chiede a sé e a tutti «di andare al cuore del problema che ci pone: d'ora in poi ci sentiremo meno liberi perché meno sicuri nell'esprimere il nostro dissenso, che è pure sulla carta un diritto, garantito dalla Costituzione».
Guadagnucci chiarisce subito che non se la sente di buttare via tutti questi anni di testimonianze e di udienze per rabbia, «anche in considerazione della fatica che abbiamo fatto per mettere insieme dei fatti che ci costano tanto dolore e che nessuno voleva farci raccontare». Non fa sconti, però: «La sentenza ci ha deluso perché il suo esito non è proporzionato all'entità dei fatti, che sono stati pure certificati da quello stesso dispositivo. Quella che esce dalla Camera di consiglio, infatti, è una condanna senza precedenti di 15 poliziotti per reati infamanti, che il tribunale ha voluto, tuttavia, minimizzare. E la sconfitta che subiamo come cittadini non è solo giudiziaria: è soprattutto politica».
Guadagnucci ricorda, infatti, che «come Comitato ci sgoliamo da tempo ripetendo che il percorso legale è di certo importante, e infatti lo abbiamo sostenuto insieme a tutte le altre vittime in anni di udienze, di tribunali, di ricerche, di intenso lavorio degli avvocati. La riparazione della mia idea di giustizia, però, me la dovevano gli organi garanti della democrazia di questo Paese». Sotto accusa quei Governi e Parlamenti che, senza sostanziali differenze nei colori e negli esiti delle azioni, «ci hanno ripetutamente tradito».
La degenerazione della democrazia è tale che oggi non si discute del fatto che «in un Paese normale, di fronte ad una condanna come questa, il ministro della Giustizia si porrebbe il problema di come far sì che le forze dell'ordine garantiscano davvero i diritti dei cittadini, di come licenziare, e non promuovere, chi li ha violati, visto che gli estremi ci sono tutti. Ci si confronterebbe, soprattutto, su come introdurre rapidamente il reato di tortura, che oggi come mai appare un buco evidente nel nostro codice penale». Di questo si parlerebbe in una democrazia in salute, sostiene Guadagnucci: «Di come prendere a calci un ragazzino già pesto e in stato d'arresto, ma anche trattenere, quasi far sparire e torturare persone innocenti, o anche colpevoli, sia incongruente con il ruolo di garanzia che non un agente semplice, ma un responsabile dell'ordine pubblico dovrebbe sentirsi sulle spalle».
Il messaggio che le istituzioni restituiscono al Paese è quanto meno sinistro: «E' pericoloso che chi lavori in polizia o nei carabinieri abbia la certezza sostanziale dell'impunità ad ogni costo, e che si convinca che i crimini che sono stati compiuti a Genova si possano fare e rifare, complici l'insufficienza del codice penale e i tempi della giustizia, talmente incerti ed estenuanti che mettono virtualmente ogni reato a rischio di prescrizione».
E' per questo che, dopo Genova e oltre Genova, «il problema che dobbiamo porci non è tanto quello di una sentenza ingiusta, che pure ci indigna, ma che è la nostra stessa Costituzione ad essere messa in discussione». Ad ottobre anche sulla Diaz si dovrebbe arrivare ad una prima sentenza, sui reati di strada e sui fatti di Piazza Manin si comincerà a testimoniare in settembre, sotto la scure della prescrizione. Reclamare e difendere il diritto fondamentale di essere liberi di esprimere il proprio dissenso è il campo di riflessione-azione che, accanto ai processi, già impegna i comitati. «Se c'è una cosa che abbiamo imparato in questi anni - taglia corto Guadagnucci - è che c'è bisogno di un'azione molto forte di tutela delle nostre libertà. Anzi, di quelle di tutti».