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«Macelleria Diaz»: avevano ragione i giornali
Oreste Pivetta
Fonte: L'Unità (http://www.unita.it)
15 giugno 2007

La «macelleria messicana», evocata dal vicequestore Michelangelo Fournier a sei anni dai «fatti», sarà una immagine ardita nella sua sanguinaria esoticità e sarà anche una citazione storica (da Ferruccio Parri, ci insegnano, che la usò a proposito di piazzale Loreto), ma è solo la banale realtà per chi si imbattè nelle radiose giornate del G8 berlusconiano, quando il «premier» andava per vicoli a sistemare limoni e a sanzionare mutande stese ad asciugare nei pressi di Palazzo Ducale e quando molti di noi, giornalisti dentro e fuori la «zona rossa», e moltissimi cittadini genovesi e molti altri che dovettero assistere alla messa in opera di una trucida guerra.

Avrebbero voluto manifestare le loro opinioni (che, malgrado tutto, manifestarono) e invece si trovarono questa guerra animata da uno spirito, che, attraverso un tenue aggettivo, si potrebbe definire «vendicativo». Nello spirito che animò ad esempio l'avvocato romano Cesare Previti, quando pronunciò la famosa minaccia postelettorale: «Ed ora non facciamo prigionieri». Non scherzava. O nello spirito con il quale qualsiasi fascista o postfascista di governo (presenti) avrebbero potuto sospirare: «Ed ora facciamola pagare a questi rossi». Facendola pagare a Carletto Giuliani, ucciso, a centinaia di giovani, malmenati, a migliaia di manifestanti (da Mani tese ai Beati costruttori di pace), ai genovesi assediati, persino ai giornalisti che erano lì in strada a vedere e a prender nota. Sicuramente hanno visto, perchè la macelleria del vicequestore Fornier andò in onda in un cinemascope, come erano non solo le scuole, ma, prima e soprattutto, le strade e le piazze di Genova, i grandi viali a mare, gli stradoni a ridosso della stazione di Brignole e la caserma (quella di Bolzaneto, perchè anche dei pestaggi, degli insulti, delle «faccetta nera» gridate contro i fermati si seppe tutto subito).

Siamo stati testimoni di qualcosa, che, per cavarsela, si potrebbe definire follia, perchè, avendo visto tutto, ma proprio tutto, è ancora difficile capire come quel disastro politico, culturale, umano, quel disastro della giustizia e del buon senso (diciamo pure "dell'ordine pubblico") sia potuto accadere. Perchè qualcuno, ad esempio, prima di dare gli ordini in strada, abbia istruito centinaia di agenti, di carabinieri, di finanzieri (proletari come noi: verrebbe quasi da citare Pasolini) alla cupa barbarie del manganello sulla testa di chiunque si presentasse a tiro. Perchè qualcun altro abbia insegnato ad un prestante finanziere a travestirsi da robocop cinematografico, con la maglietta nera, i muscoli in evidenza, le ginocchiere e i gambali neri, sulle scarpette da corsa adidas o nike (altro che divisa d'ordinanza), alla testa di un drappello di colleghi.

I ricordi e le immagini sono infiniti. In piazza Alimonda, pochi istanti prima che Carletto Giuliani finisse sotto le ruote di una camionetta, i carabinieri sui blindati che incitavano altri carabinieri sui blindati al grido «fagliela vedere, fagliela vedere», con lo stesso entusiasmo che si misura su un circuito di formula uno.

Oppure il giorno dopo i venti black bloc che lanciavano sassi a un centinaio di metri dagli edifici della Fiera presidiati e che nessuno si preoccuò di fermare (sarebbe stato facilissimo) e poi i reparti che si muovevano invece compatti contro il corteo che scendeva dalla parte opposta, verso Boccadasse, senza minacciare nessuno. O i ragazzi con le bandiere della Fiom che chiedevano protezione a me in virtù di quel rettangolo «stampa, stampa» che mi ballava sul petto.

Alla fine di tutto, dopo il sangue e le ciocche di capelli strappati lungo le scale, quel tappeto di biscotti, dentifrici, spazzolini da denti, pettini, maglie, asciugamani sul pavimento della palestra, dopo la macelleria notturna alla scuola Diaz, la conferenza stampa dai carabinieri e l'esposizione dei corpi di reato. Qualche passamontagna, le magliette nere , i birilli dei giocolieri, c'erano anche le bottiglie incendiarie (poi si seppe: un'invenzione, un trucco), ma soprattutto ricordo il fondo di una bottiglia di plastica, quelle per l'acqua, ricolme di chiodi da carpentiere, come si usa in qualsiasi cantiere: un'ala della scuola Diaz era in restauro ed era un cantiere.

Probabilmente chi aveva ideato quellla «strategia d'ordine pubblico» non s'era immaginato tanti spettatori: i giornalisti certo, poi i genovesi che raccontarono ai giornalisti (furono i condomini di uno stabile accanto alla scuola Diaz a rifarmi la cronaca dello sfondamento del cancello, delle urla, delle botte), le televisioni locali e una in particolare, che pagata per seguire le scenette ufficiali del G8 resocontò ogni attimo di quelle violenze, quasi sempre in diretta, Radio popolare e le altre radio, infine i manifestanti. In corteo nelle mani di migliaia di persone comparvero le videocamere digitali e le macchine fotografiche digitali. Mai viste tante e fu una sorpresa: quella rivoluzione tecnologica era all'inizio, ma servì ugualmente per fissare tutto. Le prove, tutte le prove. Le prove sufficienti. Invece i processi si trascinano, l'attenzione s'è rarefatta, ogni tanto una fiammata. Questa volta, all'udienza numero novantasei, è stato necessario il pentimento di Michelangelo Fournier a ravvivare il clima. Altre cose importanti i tribunali avevano accertato: ad esempio il falso delle bottiglie incendiarie. Ma sei anni sono tanti, anche se la scena politica non è poi molto mutata. Macellerie del genere non si sono più viste: ci sarebbe da riflettere.

In queste ore, molti parlamentari hanno invocato la costituzione di una commissione d'inchiesta, per stabilire le responsabilità nella catena di comando, dal capo della polizia, Gianni De Gennaro, nominato nel 2000, in giù, Canterini, il capo della celere romana, Gratteri, La Barbera (che è morto) e gli altri. Sono ventinove gli agenti e i funzionari di polizia accusati di calunnia, falso, lesioni gravi, abuso d'ufficio per l'irruzione alla scuola Diaz. Per ora sono state più le promozioni che le bocciature o le condanne. Il ministro Scajola si dimise per aver insultato il giuslavorista Biagi, assassinato dalla Br, non per i giorni neri di Genova.

Francamente, pur trovandomi tra quelli che hanno visto tutto, non riuscirei a chiudere i miei giorni di Genova, leggendo della condanna di qualche poliziotto.

Viene il sospetto che loro, i poliziotti, i loro conti li stiano chiudendo e che il pentimento di Fournier sia una mossa. Mi mancherebbero sempre la politica e i nomi dei politici, quelli che firmarono la cambiale in bianco e quelli che semplicemente «aizzarono».