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«Quella di Roberto è stata una morte inutile. Cosa è rimasto oggi? Individualismo e paura»
Eleonora Cirant
Fonte: Liberazione, 27 maggio 2008
28 maggio 2008

Le lacrime che dai nostri occhi / vedrete sgorgare / non credetele mai / segni di disperazione / promessa sono solamente / promessa di lotta. Così Lydia Buticchi Franceschi e la sua famiglia risposero all'ennesimo sfregio alla lapide in memoria del figlio Roberto, con questi versi del poeta Alexandros Panagulis. La lapide era già stata fracassata più volte, imbrattata con scritte fasciste. Ma venivano anche in tanti, i compagni e le compagne di allora, a portare un fiore o un messaggio, proprio lì davanti all'Università Bocconi dove Roberto fu ucciso con un proiettile alla nuca e dove dal 1977 c'è un monumento dedicato a lui e a «tutti coloro che nella nuova resistenza dal '45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato».
E' la sera del 23 gennaio 1973, si dovrebbe svolgere un'assemblea. A differenza delle altre volte, il Rettore Giordano Dell'Amore impedisce ai non iscritti l'accesso all'università. Che fare? Nella folla di studenti e lavoratori assembrati davanti alla Bocconi si percepisce il pericolo di una provocazione. Un plotone di polizia è schierato. Quando si decide di sospendere l'assemblea, gli studenti si allontanano a gruppi. Ma la polizia carica improvvisamente. Alcuni giovani lanciano sassi raccolti per terra. Vola anche qualche bottiglia incendiaria. Dal reparto di polizia esplodono colpi di pistola. L'operaio Roberto Piacentini è ferito alla schiena. Per Roberto Franceschi è la fine.
Per sua madre, suo padre e sua sorella inizia la ricerca della verità. «Se mi dovesse succedere qualcosa tu continui nella mia lotta» dice Roberto a Lydia una volta che lei gli raccomanda attenzione. Lydia ha aderito alle rivendicazioni dei giovani dal '68 in poi e condivide le idee del figlio, impegnato nel movimento studentesco. «Questa frase di Roberto è stato il filo conduttore della mia seconda resistenza - racconta Lydia - la più ardua, la più tragica, la più tormentata. Nella resistenza contro il nazifascismo eri giovane, ti sembrava che il mondo fosse davanti a te e che potevi rivoltarlo come un calzino. Invece dopo la morte di Roberto la nazione era democratica ma si uccideva ancora, e si uccidevano proprio quei ragazzi che perseguivano i valori scritti nella Costituzione, usando le forze dell'ordine in senso antidemocratico. Ciò che sognavi è chiuso dentro un cassetto di cui hai perso la chiave».
Il processo penale si snoda tra inquinamenti probatori, rimozioni di giudici istruttori, oscuramento delle dichiarazioni di testimoni oculari, falsità conclamate da parte della polizia. La sentenza finale è del 22 aprile 1985: l'imputato Tommaso Paolella, vicequestore ai tempi del delitto, è assolto per insufficienza di prove.
Fino al 1979 erano stati sotto accusa anche Gianni Gallo, l'agente che aveva in dotazione la pistola da cui era partito il colpo che uccise Roberto, e il brigadiere Agatino Puglisi, perché anche dalla sua pistola si era sparato. La famiglia di Roberto rinuncia però a chiederne la condanna. Perché? «Non potevamo accettare i due agnelli sacrificali che ci avevano presentato su un piatto d'argento, non potevamo per rispetto verso Roberto e i valori che gli erano propri - dice Lydia -. Noi volevamo conoscere la verità su una morte, sapere chi aveva sparato».
«La pistola omicida appartiene al Gallo, ma a impugnarla, nella posizione descritta, poteva essere soltanto il vicequestore Paolella», è scritto nel documento consegnato alla Corte dagli avvocati dei Franceschi, che chiamano in causa le responsabilità del capo del servizio, scrivendo tra l'altro che «le parti civili, nel rinunciare a concludere in questa sede, comunque agiranno in sede civile per il risarcimento del danno». Questo ed altri documenti sono riportati nel bel libro in cui Daniele Biacchessi ricostruisce le vicende processuali, Roberto Franceschi. Processo di polizia (Baldini e Castoldi, 2004).
Con la sentenza dell'85, Lydia Franceschi si dimette dal ruolo di preside. «Dopo la morte di mio figlio [...] ho detto: il dolore è nostro, ma la verità appartiene a tutti. Sono stata profondamente convinta di questa affermazione [...]. Oggi temo di dover aggiungere che la verità appartiene sì a tutti, ma non al nostro Stato democratico [...] in cui si può ancora agire a livelli istituzionali con omertà e con menzogna per sconfiggere la giustizia. In questo Stato [...] non sono più capace di tornare a scuola dai miei ragazzi e continuare ad educarli alla dignità di cittadini», scrive nella lettera indirizzata al ministro della Pubblica Istruzione.
Nel 1999 è pubblicata la sentenza del processo civile: anche se non è stato individuato l'esecutore del delitto, il colpo che ha ucciso Roberto è sparato da una persona appartenente alle forze dell'ordine e l'uso dell'arma è illegittimo. Il risarcimento devoluto dallo Stato sarà utilizzato per la costituzione della Fondazione Roberto Franceschi, con lo scopo di mantenere culturalmente viva la sua memoria, promuovere e agire i valori cui si dedicava con tanta passione. Lo Stato ha imparato la lezione. «L'Avvocatura di Stato ha dichiarato che a Genova nel 2001 gli agenti non hanno agito in maniera costituzionale. Lo Stato non si riconosce nel loro operato e non darà nessun risarcimento», nota Lydia.
Quali strumenti ha dunque un cittadino per difendersi dalla violenza di Stato? Lydia è secca: «a questo punto dico: nessuno». Perché? «Manca la coesione tra la gente. E perché come società civile non abbiamo mai preso seriamente in considerazione come si costruisce la mentalità delle forze dell'ordine. Dovremmo invece capire bene come una persona può diventare uno sbirro e non un lavoratore di polizia». Lydia si è impegnata molto in questa direzione. Ha cercato di comprendere come un essere umano possa considerare un altro un mero bersaglio. «Ero vista come una visionaria, o come una che tradiva il proprio figlio. Eppure questo è un campo di battaglia che si potrebbe vincere».
Per farlo, bisognerebbe essere tutti e tutte cittadini, non sudditi. Ecco il ruolo della scuola, dove Lydia ha lavorato tanti anni. «Formare la coscienza civile: è lì che la scuola ha fallito». Da dove passa la coscienza civile? «Dal modo di rapportarsi degli adulti, dall'attenzione dei docenti agli adolescenti, al loro crescere che indubbiamente è molto difficile perché i modelli proposti agiscono come una droga sulla loro intellettualità». Sulla presunta passività dei ragazzi di oggi si fanno molti discorsi. «E' come il risultato di una moltiplicazione: dipende dai fattori che ci metti dentro. Quanto fa zero per zero?» Appunto. «Il ragazzino come la democrazia è simile a una pianta che ha bisogno di cura e dedizione. Se non le hai perdi sia la persona che la democrazia».
I valori che hanno mosso Roberto e la sua generazione Lydia li rivede nei ragazzi di oggi? «Si. Sono disinformati, ma quando vai a parlare ai giovani senza retorica, senza doppi fini, avendo pagato per le idee che proponi loro, allora hai credibilità. Gli è stata tolta, perché hanno di fronte maschere e non persone». Quando Lydia si dimette da preside, legge agli studenti la lettera che avrebbe spedito al ministro. Alla fine un ragazzino alza la mano e, rosso in viso, dice: «a me dispiace molto che lei l'anno venturo non sarà più con noi, però capisco che se lei dovesse rimanere sarebbe proprio una suddita e non una cittadina, come ci dice sempre». «Quella di Roberto è stata una morte inutile - dice Lydia - perché non c'è stata una semina dopo. Cosa abbiamo seminato? Competizione, individualismo, paura. Sono i frutti di un modo di vivere superficiale, alla giornata, dove il tuo bisogno è il centro del tuo pensiero. Io voglio essere, non apparire. Ecco perché non darò la mia foto per questa intervista, come non l'ho data per nessun'altra».
Lydia nasce a Odessa, un primo maggio di tanti anni fa. Suo padre, socialista, è stato cacciato dalla Russia per non aver accettato il corso che Stalin ha dato alla Rivoluzione d'Ottobre. Sua madre, russa, rompe ogni legame con la ricchissima famiglia d'origine, scegliendo l'amore e il socialismo. Muore pochi giorni dopo la nascita di Lydia per motivi ignoti. Il dubbio che gliel'abbiano uccisa non abbandonerà mai suo padre. In Italia, Lydia è tra le poche bambine a sapere che prima del fascismo esisteva un parlamento e che si votava, ma le donne non ne avevano il diritto. Conosce il Psi, la scissione a Livorno, cosa è diventato il comunismo. «Mio padre mi diceva che le religioni sono l'oppio dei popoli, ma i partiti sono l'oppio degli uomini». Non mancano le perquisizioni in casa e le notti in galera del padre, che muore lasciandola ragazzina. Ma fa in tempo a seminare in lei il seme della consapevolezza. Chiedo a Lydia se oggi riveda un clima fascista: «dal punto di vista dei valori senz'altro, ma è un fascismo rielaborato. E' fascismo il fatto di non leggere, non approfondire, che tutto sia apparenza, il non accettare un diverso. Il fascismo è in agguato dentro di noi, è lì il primo lavoro da fare. Oggi tanta gente che vota a sinistra ha una mentalità fascista».
Roberto era apprezzato dai suoi professori e amato dai compagni per la sua generosità. «Era un ragazzo di cultura vastissima, esigente con se stesso, coerente e attento ai bisogni della povera gente e per questo aveva scelto di studiare Economia, convinto che gli errori nelle scelte economiche fossero sempre i più deboli a pagarli - dice Lydia -. Era il seme che andava avanti...».
In sua memoria è lo spettacolo di Daniele Biacchessi, Il sogno e la ragione. Cronache del '68 , questa sera, martedì 27, alla Camera del lavoro di Milano con un dibattito.