Segreteria del GENOA LEGAL FORUM - via San Luca 15/7, 16124 Genova (tel. 010 8602573)
per donazioni: C/C n. 61359/80 ABI 06175 CAB 01400 intestato a: Don Balletto presso Banca Carige Filiale n.15
Premessa
Genova 2001 rappresentava per l'intero movimento nato all'indomani di Seattle l'appuntamento su cui far convergere le varie esperienze di lotta prodotte dall'associazionismo, dai centri sociali e dai sindacati: lotte locali e lotte globali per la difesa di beni comuni, che portano una critica radicale al modello di sviluppo e ai processi di globalizzazione liberista, e una diversa visione del rapporto tra il Nord e il Sud del mondo. Ma il G8 di Genova ha finito per rappresentare la repressione violenta della protesta: le cariche ingiustificate delle forze dell'ordine contro migliaia di manifestanti provenienti dal resto d'Italia e d'Europa, l'omicidio di Carlo Giuliani, gli arresti illegali, i pestaggi e le torture. Dopo il G8 la repressione non si è fermata, ma è continuata nelle aule di tribunali dove molte persone che a vario titolo hanno partecipato al movimento oggi devono affrontare capi di imputazione assurdamente sproporzionati, come sproporzionata fu la violenza delle forze dell'ordine durante il G8. Il caso più eclatante è la decisione squisitamente politica della Procura di contestare il reato di devastazione e saccheggio, reato che era stato contestato anche ai 93 arrestati alla Diaz e che prevede una pena da 8 a 15 anni. Inoltre, le inchieste nate all'indomani delle giornate di Genova sono state l'apripista di una repressione che ha interessato le espressioni più radicali del movimento. Si tratta di procedimenti complessi. Per farvi fronte è stato necessario un lavoro tecnico e politico impegnativo. Da questa esigenza sono nate strutture in grado di coordinare il lavoro dei collegi difensivi nei processi e di monitorare le varie inchieste, e le nuove che vengono aperte. Queste strutture sono le segreterie legali.
La segreteria legale di Genova
La segreteria legale è stata costituita per assistere gli avvocati sui diversi processi legati ai fatti di Genova (contro 25 manifestanti, per i fatti della Diaz e di Bolzaneto, per l'uccisione di Carlo Giuliani e per diversi fatti di strada. Questa struttura sostiene il lavoro di circa 150 avvocati per la difesa di circa 100 imputati e 300 parti offese, spesso straniere (soprattutto nei processi Diaz e Bolzaneto). La vastissima documentazione delle indagini della Procura viene archiviata e sistematizzata in formato digitale per consentire la gestione e la condivisione degli atti tra avvocati. Il lavoro di segreteria legale consiste in: 1) archiviazione su supporto informatico di tutti gli atti cartacei, foto e video della Procura; 2) analisi dei documenti al fine di ricostruire i fatti relativi alla "piazza" dei manifestanti e delle FFOO; 3) preparazione delle udienze per selezionare il materiale utile all'esame del teste e ricostruire le circostanze per le quali viene chiamato; 4) traduzione e accoglienza per le parti offese straniere; 5) consulenze tecniche sull'analisi del materiale video-fotografico e sulle comunicazioni radio al fine di definire una cronologia degli eventi; 6) costruzione e gestione del sito sul quale verrano inseriti tutti gli atti pubblici acquisiti in dibattimento. La segreteria legale nasce con la costituzione del Genoa Legal Forum il 4 agosto 2001. La partecipazione degli avvocati alle giornate di Genova del 19-20-21 luglio 2001 è nata originariamente con l'adesione al Genoa Social Forum dell'Associazione Nazionale dei Giuristi Democratici, a cui si sono poi aggiunte le adesioni individuali di altri avvocati provenienti da tutta Italia. Lo scopo era l'osservazione e il controllo della situazione durante le giornate di protesta contro il Vertice G8. L'attività legale è stata realizzata grazie all'ausilio di un volontario del GSF che ha svolto la funzione di coordinatore e di riferimento tra gli avvocati ed il GSF. In tal modo è stato possibile organizzare al meglio l'attività, sia con l'assistenza legale durante le perquisizioni che hanno preceduto il Vertice, sia con la partecipazione attiva e diretta degli avvocati nelle strade durante le manifestazioni in qualità di osservatori qualificati e con le funzioni di coordinamento e di informazione telefonica svolte presso il Media Center di via Cesare Battisti. Il quadro che è emerso a conclusione del Vertice presenta innumerevoli violazioni dell'ordinamento giuridico nazionale e della Carta dei Diritti della UE, culminate nelle violenze durante l'assalto alla Scuola Diaz e nelle torture inflitte nel centro di detenzione di Bolzaneto, dove si è verificata una temporanea sospensione dei diritti costituzionali. Gli avvocati impegnati nelle varie difese hanno pertanto deciso di coordinarsi al fine di assicurare a tutti i cittadini ingiustamente incarcerati e successivamente processati una difesa efficiente, e a tutti coloro che hanno subito violenze e a cui è stato negato l'esercizio dei diritti fondamentali, la possibilità di fare luce sulle responsabilità (individuali e centrali) e di essere risarciti per i danni subiti. Si sono così costituiti alcuni gruppi di lavoro sui principali momenti in cui l'assistenza legale si è articolata: la tutela delle persone indagate, l'assalto alla Scuola Diaz, le violenze perpetrate a Bolzaneto, gli arresti e i pestaggi durante le manifestazioni, i ricorsi contro le espulsioni immotivate e il divieto di rientro in Italia, i fatti di via Tolemaide e piazza Alimonda culminati con la morte di Carlo Giuliani. A questo lavoro di coordinamento è stato dato il nome di Genoa Legal Forum (GLF). La segreteria del GLF ha permesso ai numerosi avvocati italiani e stranieri impegnati sui fatti del G8 di restare in contatto, condividere le risorse documentali, avere uno spazio comune dove verificare le strategie processuali in maniera coordinata. Negli uffici della segreteria legale sono raccolti gli atti processuali, i video, le foto che gli avvocati e i consulenti tecnici visionano e analizzano continuamente. L'archivio del GLF include materiali diversi, circa 60.000 foto, 800 ore di filmati e 300 ore di comunicazioni radio PS/CC, tenuti insieme da un database, che permette di estrarre i documenti secondo criteri necessari per le ricostruzioni (ora, luogo, evento).
I PROCESSI
25 MANIFESTANTI
Il reato di "devastazione e saccheggio", introdotto nel dopoguerra e mai contestato per scontri di piazza, è stato rispolverato dalla Procura di Genova per i fatti del G8 del 2001. Gli elementi che integrano il reato sono: l'ordine pubblico messo in crisi e il danneggiamento ripetuto di beni, anche tramite compartecipazione psichica tra gli imputati. In pratica, non occorre aver effettivamente "devastato", ma è sufficiente essere presente mentre gli altri devastano. Le indagini che porteranno al rinvio a giudizio di 25 manifestanti cominciano subito dopo il G8, quasi esclusivamente grazie a immagini e video di varia provenienza, diramate a tutte le Digos italiane. Il lavoro è quello di mettere un nome a tutte le facce possibili: le indagini sono volte a dimostrare chi era a Genova ed effettivamente in strada. Questo porta a una quarantina di identificazioni. Di queste 40 persone, 23 vengono arrestate il 4 dicembre 2002. Le indagini su 26 persone si chiudono nel giugno 2003, quando viene formulata la richiesta di rinvio a giudizio e l'udienza preliminare è fissata a dicembre 2003. Durante l'udienza preliminare la difesa chiede inutilmente la modifica del capo di imputazione "devastazione e saccheggio". La Procura infatti modifica l'imputazione ma in un altro senso: elimina molte delle parti offese originariamente individuate, liberandosi così di un una serie di punti deboli. Durante l'udienza preliminare il GUP rinvia a giudizio tutti gli imputati, fissando la prima udienza dibattimentale per il 2 marzo. La strategia della Procura è dimostrare un "unico disegno", in cui le tute bianche avrebbero approfittato dei disordini creati dal blocco nero, e sono quindi colpevoli di concorso nella devastazione. Obiettivo della difesa è smontare il teorema dell'accusa attraverso l'analisi puntuale dei reperti e il controesame dei testi. All'apertura del processo, il 2 marzo 2004, la posizione di uno degli imputati viene stralciata per difetto di notifica e verrà trattata in separato procedimento. I 26 diventano 25. Successivamente si passa alla formazione del fascicolo del dibattimento, cioè la cernita degli atti che possono essere portati da subito a conoscenza del collegio giudicante. La discussione si concentra da subito sui video e sulla loro ammissibilità come prova, dal momento che la Procura decide di gestire questo processo quasi integralmente provando i fatti attraverso le immagini. I difensori degli imputati fanno presente di non aver ancora ottenuto copia del materiale depositato all'interno di questo fascicolo e di non essere quindi in grado di procedere al controesame dei testi portati dall'accusa, che testimonieranno, quasi tutti, con l'ausilio di supporti video o fotografici. Il Tribunale invita quindi la Procura a consegnare in tempi brevi alla difesa copia del materiale video e fotografico depositato e concede un termine ai difensori per visionare il materiale. Viene chiamato a deporre il primo testimone dell'accusa: l'ispettore Corda, della Polizia Municipale, sezione di Polizia Giudiziaria, incaricato dai PM di ricostruire e situare cronologicamente, per sostenere l'accusa di devastazione e saccheggio, alcuni dei fatti commessi in Genova nei giorni 20 e 21 del luglio 2001. Durante l'esame di questo teste, utilizzando tre dvd da lui prodotti, i PM effettuano una ricostruzione della storia di quei giorni che dovrebbe costituire la base dell'accusa in questo processo. In realtà il video prodotto da Corda è un montaggio e, come ogni montaggio, non è una ricostruzione neutra dei fatti, ma un'interpretazione, realizzata in modo da proporre un messaggio preciso attraverso immagini accuratamente selezionate, poste in sequenza per risultare il più possibile suggestive. Nel frattempo alla Procura viene consentito solo l'esame di testimoni che possano essere ascoltati senza l'ausilio delle immagini. Comincia quindi una serie di testimonianze di responsabili di uffici bancari, autosaloni ed altri esercizi commerciali danneggiati durante le giornate di Genova. A questi, quasi nessuno presente ai fatti e quindi di scarso interesse, seguono privati cittadini che hanno potuto osservare dalle loro finestre quanto accadeva in strada. Un dato interessante di tali testimonianze è che viene più o meno riferito da tutti l'atteggiamento non pericoloso né aggressivo nei confronti delle persone da parte dei manifestanti. Il processo entra nel vivo quando la difesa, avendo avuto modo di visionare le copie video e fotografiche del materiale della Procura, contesta la genuinità del materiale video e la possibilità che gli originali siano stati "manipolati". Su questi punti vengono presentate tre memorie da parte dei difensori e dei consulenti tecnici della difesa che rilevano, da un lato, la non corrispondenza fra gli originali dei video e le copie depositate dalla Procura nel procedimento (nelle quali sono stati individuati tagli evidenti) e dall'altro, ancora una volta, il fatto che la difesa non ha potuto avere accesso all'intero complesso del materiale video, presente nel fascicolo del procedimento contro ignoti, e sul quale invece la Procura ha lavorato sin dall'inizio. Nell'ultima udienza prima della pausa estiva, i PM chiedono un rinvio per avere il tempo di contestare le memorie della difesa. Il Tribunale rinvia la decisione sui materiali video fotografici a settembre, quando decide di acquisire i dvd di Corda, "riservata ogni valutazione in merito all'efficacia probatoria del loro contenuto", mentre il restante materiale video e fotografico verrà acquisito di volta in volta, se ritenuto rilevante e pertinente rispetto al teste. Con una successiva ordinanza il Presidente del Tribunale Devoto specifica che solo nel caso in cui il teste riconosca nel video sé stesso o una specifica situazione a cui è stato presente, il video relativo potrà essere acquisito come prova. Nei mesi che seguono, sfilano i testi chiave dell'accusa: i poliziotti e i carabinieri che comandavano i vari contingenti schierati per le strade di Genova nel luglio 2001, tra i quali i responsabili delle cariche e dei pestaggi indiscriminati ordinati e condotti per tutelare l'"ordine pubblico". Uno dei più importanti è il Primo Dirigente della Polizia di Stato Pasquale Zazzaro, responsabile, nei giorni del G8, della Centrale Operativa della Questura. Si tratta del PS che teneva le fila delle comunicazioni radio indicando ai dirigenti di piazza dove spostare i contingenti e quali operazioni effettuare, sulla base di ordini ricevuti dal Questore, o delle richieste fatte dagli stessi dirigenti in piazza. Zazzaro ricorda poco o niente, ma in realtà è una figura importante in quanto la sua audizione consentirà alla difesa di entrare in possesso di tutte le comunicazioni radio passate per la centrale operativa della Questura (non quelle dei carabinieri quindi) durante le giornate di luglio 2001 e che verranno largamente utilizzate nelle udienze successive. Tra i vari poliziotti e carabinieri che si sono susseguiti sul banco dei testimoni sono risultati molto significativi per la ricostruzione della difesa il Primo Dirigente di PS Mondelli, il capitano dei CC Bruno e il Dirigente del Commissariato di PS Centro Gaggiano, chiamati a testimoniare principalmente sui fatti di via Tolemaide. Questi testi consentono la prima ricostruzione completa della carica al corteo autorizzato delle tute bianche. Mario Mondelli era il PS Dirigente di piazza e in quanto tale responsabile del contingente dei carabinieri che ha caricato il corteo della disobbedienza, mentre il Capitano Antonio Bruno era il CC che comandava quel contingente (il III battaglione Lombardia). Dalla loro testimonianza emerge che la prima carica contro il corteo (partita intorno alle ore 15) è stata un'iniziativa autonoma e improvvisa dei carabinieri e non, come era sembrato fino ad allora, una scelta fatta dal responsabile dell'ordine pubblico per quel corteo, il PS Angelo Gaggiano. Una carica violenta che travolge prima i numerosi giornalisti che si trovavano all'incrocio tra corso Torino e via Tolemaide, e poi il corteo di 10.000 persone che stava avanzando pacificamente lungo un percorso autorizzato. Con la testimonianza del capitano Antonio Bruno (udienza del 16 novembre 2004), la difesa segna un punto importante anche sotto un altro aspetto. Grazie al materiale video e fotografico utilizzato infatti gli avvocati dimostrano (e Bruno, di fronte all'evidenza delle immagini, non può far altro che confermare) che i carabinieri hanno caricato il corteo utilizzando oltre ai normali manganelli in dotazione all'Arma (i "tonfa") anche diversi tipi di oggetti contundenti "fuori ordinanza", tra cui mazze di ferro. All'inizio del 2005 depone Angelo Gaggiano, nel corso di tre lunghe udienze. Gaggiano è sentito in quanto responsabile di piazza per il corteo della disobbedienza del 20 luglio, e responsabile per il corteo internazionale del 21. La sua testimonianza è confusa e piena di imprecisioni, uno sforzo continuo di sviare le domande della difesa. Il 20 luglio Gaggiano stazionava con i suoi contingenti in piazza Verdi, in attesa del corteo delle tute bianche che scendendo da via Tolemaide sarebbe dovuto arrivare lì. Ma il corteo non arriverà mai. Verrà caricato prima dai carabinieri di Bruno e poi dallo stesso Gaggiano (circa un'ora più tardi). Ma Gaggiano la prima carica non la vede proprio, e arriva a sostenere che non ci sia mai stata. Di fronte alla reticenza spudorata di questo dirigente di PS, anche davanti a immagini inequivocabili, la difesa a chiede al Tribunale di valutare l'attendibilità del teste, e produce una vecchia sentenza di condanna per ricettazione. Un precedente penale che in sé potrebbe avere scarso interesse per il Tribunale, ma Gaggiano mente ancora una volta, raccontando che aveva "comprato un mobile". Il Presidente del Tribunale, controllata la sentenza, lo contraddice: era stato condannato per avere venduto mobili rubati, e lo congeda seccamente. Gaggiano ha dato il colpo di grazia alla propria attendibilità. Di lì a pochi giorni anticipa il suo pensionamento. Dopo Gaggiano si susseguono altri testi, relativi a via Tolemaide e a piazza Alimonda, come il vice Questore aggiunto Fiorillo, il Tenente dei carabinieri Mirante, il Capitano Ruggeri (del battaglione paracadutisti Tuscania), il Capitano Cappello (presente in piazza Alimonda), e il giornalista Giulietto Chiesa. Quest'ultimo, che è anche un teste della difesa, conferma la ricostruzione della prima carica contro il corteo delle tute bianche. Dal mese di maggio 2005 viene poi sentito come testimone del PM il dr. Cavalera, all'epoca dirigente della Polizia Scientifica di Genova: il PM lo ha usato per i riconoscimenti delle persone individuate nei materiali video fotografici. Dalla sua testimonianza è apparso sostanzialmente che non esiste un metodo scientifico per effettuare riconoscimenti fotografici. Infine dall'ottobre 2005 è stato sentito il teste Zampese (Digos Genova): nel corso di decine di udienze il teste espone al Tribunale la ricostruzione dei fatti, i comportamenti degli imputati e i relativi riconoscimenti secondo la versione elaborata da Polizia e Procura. La tecnica è quella di un esame fotogramma per fotogramma di ore di filmati soffermandosi su particolari di vestiario utili al riconoscimento delle persone; nessuno spazio è dedicato alla ricostruzione dei comportamenti delle forze dell'ordine: il risultato è che le azioni dei manifestanti sono ancora una volta decontestualizzate. A febbraio 2006 il processo viene rinviato a settembre a causa dell'impegno improvviso del Presidente Devoto come membro supplente del CSM. Ad oggi su circa 140 testi dell'accusa ne sono stati sentiti oltre 120. Toccherà poi ai testi della difesa (che sono circa lo stesso numero), all'esame degli imputati e alle discussioni finali. Insomma, abbiamo quindi davanti un altro anno per presentare al Tribunale un altro G8, dimostrare l'incosistenza del castello di accuse del Pubblico Ministero ed evitare che 25 persone finiscano in carcere a scontare pene assurdamente sproporzionate rispetto ai fatti di cui sono accusati.
DIAZ
Il complesso delle scuole Diaz è costituito da due edifici che ospitano vari istituti. Nel luglio 2001 vengono assegnati al Genoa Social Forum per realizzare il media center e un centro di comunicazione e training dove vari gruppi potessero coordinare e preparare le loro iniziative. Sui nomi delle scuole c'è sempre stata confusione, ma nel processo si chiamano Pertini la scuola dormitorio e Pascoli il media center. La scuola Pascoli viene così suddivisa: al piano terra una sala stampa e una palestra/infermeria, al primo piano la stanza per l'attività legale, quella per l'attività sanitaria, e gli uffici di comunicazione del GSF, al secondo piano i media alternativi e indymedia al terzo. Nella Pertini la palestra viene adibita a zona di training e a destra dell'ingresso vengono installati alcuni computer con pubblico accesso a internet. Rapidamente la scuola diventa anche "people house" ossia un dormitorio per i manifestanti che non hanno trovato altro luogo dove dormire. Durante tutta la settimana decine di mediattivisti lavorano presso questa struttura, consentendo a vari operatori media di raccontare quello che stava avvenendo a Genova. Sabato 21 luglio, pochi minuti prima della mezzanotte, quando il media center ha iniziato a svuotarsi e molti manifestanti stanno già dormendo alla Pertini, circa 300 poliziotti divisi in due colonne giungono da entrambi lati di via Cesare Battisti e muovono all'assalto delle scuole Diaz. Un mediattivista inglese, Mark Covell, preso per strada fra le due scuole, viene pestato a sangue. Lasciato a terra, subisce altri due pestaggi ed è ridotto in fin di vita. Nella Pascoli la furia dei poliziotti si indirizza soprattutto contro i computer di legali, medici e mediattivisti. Le persone vengono fatte sedere contro il muro e con la faccia a terra mentre i locali vengono perquisiti. Alcuni vengono malmenati. Per le persone che si trovano nella Pertini è l'inizio di un incubo. Al termine dell'operazione vengono arrestati tutti i 93 presenti (purtroppo solo pochi sono riusciti miracolosamente a scappare). 71 sono feriti e tre in condizioni gravissime, di cui uno in coma. 75 di loro, compresi tutti i feriti meno gravi, vegono portati alla caserma di Bolzaneto. La mattina successiva, con una conferenza stampa in Questura, i 93 arrestati sono accusati di far parte di una organizzazione internazionale finalizzata alla devastazione e al saccheggio. I primi agenti entrati sarebbero stati aggrediti e all'interno della scuola sarebbero state ritrovate pericolose armi. Presto queste affermazioni si dimostreranno false, e cadranno tutte le accuse nei confronti degli arrestati, ma solo 2 anni dopo si riveleranno falsi anche il ritrovamento di due bottiglie incendiarie e il tentato accoltellamento di un poliziotto. Dal verbale di arresto risulta che sabato 21 luglio, verso le ore 21.30, un pattuglione composto da quattro auto della PS, due in borghese e due con i colori di istituto, tra cui un Magnum, transita davanti alle due scuole, in via Cesare Battisti e secondo la versione della Polizia subisce "un fitto lancio di oggetti contundenti da parte di numerose persone, verosimilmente appartenenti alle Tute Nere". Questo episodio legittima un intervento urgente di iniziativa autonoma della Polizia Giudiziaria secondo quanto previsto dall'articolo 41 TULPSS (testo unico di pubblica sicurezza): "in considerazione della concreta possibilità che proprio l'edificio scolastico in argomento fosse il rifugio delle frange estreme delle "Tute Nere", si predisponeva un adeguato programma d'intervento finalizzato alla ricerca di armi e materiale esplodente che in quel luogo poteva essere occultato" (dal verbale di arresto). La situazione risulta però fortemente ridimensionata già nei primi interrogatori dei componenti del pattuglione. I testimoni fino ad ora ascoltati in udienza concordano nel ricordare urla da parte dei presenti contro le auto della PS. Alcuni di loro ricordano il lancio di una singola bottiglia. L'irruzione alla scuola Diaz viene decisa a seguito di questo episodio dai massimi vertici della polizia presenti a Genova per il G8, nel corso di due riunioni tenute quella sera in Questura: durante la prima si delibera di procedere, nella successiva si concordano i dettagli operativi. A presiederle, il prefetto Arnaldo La Barbera, capo della polizia di prevenzione, incaricato dal Capo della Polizia di raggiungere la città di Genova proprio quel pomeriggio, quando il Vertice G8 volgeva al termine. Presenti Gratteri (capo dello SCO), Calderozzi (suo vice), Murgolo (vicequestore di Bologna), Mortola (capo della Digos Genova), che effettua un sopralluogo alle scuole constatando la presenza di un nutrito gruppo di persone che stazionava, rumoreggiando e bevendo birra. Canterini (capo Reparto Mobile Roma) partecipa alla seconda riunione - informato da Donnini (dirigente superiore responsabile del coordinamento operativo e logistico dei Reparti Mobili per i servizi di ordine pubblico durante il G8) della necessità di radunare il suo reparto e impiegarlo per favorire l'entrata nella scuola del personale della squadra mobile. Il vicecapo della polizia, prefetto Ansoino Andreassi, manifesta le sue perplessità e non partecipa alla seconda riunione, quella operativa. Del resto, inviando a Genova La Barbera, De Gennaro aveva praticamente sfiduciato Andreassi. Più che una perquisizione, che infatti non c'è stata, si decide una retata: lo scopo è quello di operare il massimo numero di arresti a fronte di un bilancio disastroso per l'ordine pubblico. Tutte le 93 persone presenti nella scuola vengono arrestate per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, come risulta dal verbale di perquisizione e sequestro che attesta il ritrovamento di armi improprie e di due molotov. I giudici genovesi però non convalidano gli arresti, anzi formalizzano una denuncia sulla base delle dichiarazioni rese dagli arrestati che descrivono in maniera univoca una situazione di violenze indiscriminate contro persone inermi. Il 12 maggio del 2003 il giudice per le indagini preliminari Anna Ivaldi, su richiesta del PM, decreta l'archiviazione delle accuse a carico dei 93 per i reati di associazione e resistenza aggravata. Le udienze preliminari si aprono il 26 giugno 2004 e terminano il 13 dicembre con 29 imputati. Uomini vicinissimi al capo della polizia, come Francesco Gratteri (promosso a capo dell'antiterrorismo giusto in tempo per essere presentato come il castigatore delle nuove BR), dirigenti di primo piano come il capo degli analisti della polizia di prevenzione, Gianni Luperi (coordinatore della task force europea che indaga sugli "anarco-insurrezionalisti"), investigatori come Gilberto Calderozzi (ex vice di Gratteri allo SCO), Filippo Ferri (squadra mobile di La Spezia) e Fabio Ciccimarra (imputato anche a Napoli per le violenze sugli arrestati nella Caserma Raniero a maggio del 2001). Insieme agli altri firmatari dei verbali, Mortola, il vicequestore Massimiliano Di Bernardini (nucleo antirapine, Squadra Mobile di Roma), il vicequestore Pietro Troiani e l'agente Alberto Burgio devono rispondere di abuso di ufficio per la gestione dell'intera operazione nonché dei reati di falso e calunnia in relazione al falso ritrovamento delle due bottiglie molotov, il caso più eclatante di fabbricazione di prove false a carico degli arrestati. Per il pestaggio all'interno della Diaz sono imputati di lesioni personali in concorso Vincenzo Canterini, Michelangelo Fournier (suo vice al Reparto Mobile di Roma) e gli otto capisquadra Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone. Le immagini, le dichiarazioni di Gratteri davanti alla commissione parlamentare e le stesse relazioni di servizio dei capisquadra, incrociate con le deposizioni delle parti offese, che in qualche caso hanno potuto riconoscere le divise, indicano che i settanta celerini romani, il "VII nucleo", speciale squadra antisommossa creato appositamente per il G8, sono entrati per primi, ma al pestaggio hanno preso parte anche decine di poliziotti in divisa e in borghese, mai identificati. Per questo la procura ha chiesto l'archiviazione delle accuse contro gli agenti semplici di Canterini. Solo uno di loro, Massimo Nucera, è accusato di falso e calunnia perché "falsamente attestava di essere stato attinto da ignoto aggressore con una coltellata vibrata all'altezza del torace, che provocava lacerazioni alla giubba della divisa indossata e al corpetto protettivo interno, così avvalorando quanto descritto negli atti di arresto e di perquisizione e sequestro circa il comportamento di resistenza armata posta in essere dagli arrestati" (dalla richiesta di rinvio a giudizio, 3 marzo 2004). Un ultimo gruppo di funzionari e agenti è chiamato a rispondere di perquisizione arbitraria, danneggiamento, furto e lesioni personali per aver fatto irruzione nella scuola di fronte, la Pascoli, che ospitava il Media Center del GSF. Computer distrutti, hard disk asportati, in particolare dai computer degli avvocati, materiale video e fotografico sottratto. Gli imputati per questi fatti sono Salvatore Gava, Capo della Mobile di Nuoro, il napoletano Alfredo Fabbrocini e Luigi Fazio, della mobile romana, quest'ultimo accusato anche di percosse a un giovane tedesco. L'inchiesta sulla Diaz comincia quando i giudici genovesi, dopo aver ascoltato gli arrestati, non hanno convalidato gli arresti e hanno trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica. Nel frattempo De Gennaro è costretto a nominare tre super-ispettori per altrettante rapidissime indagini amministrative interne: una sugli incidenti di piazza, una sulle sevizie nella caserma di Bolzaneto e una appunto sulla Diaz, affidata al Questore (oggi Prefetto) Giuseppe Micalizio. In pochi giorni Micalizio conclude che l'operazione era stata confusamente organizzata e che le violenze ingiustificate si sono effettivamente verificate. «Risulta evidente che la fase organizzativa è stata predisposta in maniera molto approssimativa e carente sotto il profilo dei momenti direzionali connessi con l'emanazione di specifiche disposizioni operative, sulla base delle quali gestire l'intervento in agomento». «Si sottolinea come lo stesso ingresso degli operatori all'interno dell'edificio sia avvenuto in maniera caotica e soprattutto senza una precisa guida da parte dei Funzionari». «Non va infine trascurata la scarsa ponderatezza della decisione di impiegare il Nucleo Sperimentale Antisommossa in una operazione che ben poteva essere condotta a termine da altre unità del Reparto Mobile, reperibili in tempi approssivamente analoghi» (Relazione Dott. Pippo Micalizio, 31 luglio 2001). Sulla scorta delle sue conclusioni scattano tre provvedimenti di peso. Vengono rimossi dai loro incarichi il vicecapo vicario della polizia Ansoino Andreassi, il numero uno dell'antiterrorismo Arnaldo La Barbera e il Questore di Genova Francesco Colucci, mentre per Canterini si propone la destituzione (licenziamento) dalla Polizia di Stato. Inizialmente nessuno viene iscritto nel registro degli indagati. Comincia subito un braccio di ferro tra il Procuratore Capo Francesco Meloni, spalleggiato dall'aggiunto Francesco Lalla - che prenderà il suo posto nel 2003 - e i sostituti che si occupano direttamente del caso, Enrico Zucca e Francesco Pinto, ai quali si aggiungono Francesco Cardona Albini, Monica Parentini, Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. La Polizia boicotta le indagini: ci vogliono mesi per identificare i quattordici firmatari dei verbali: anzi tredici, perché la quattordicesima firma rimarrà indecifrabile. Non è stato possibile avere un elenco completo degli agenti che hanno partecipato, e le loro foto identificative che trasmettono alla Procura sono vecchie. Pochi mesi dopo, comunque, Canterini e il suo reparto vengono indagati per concorso in lesioni personali. La vera svolta arriva nel novembre 2001. I PM rilevano che Pasquale Guaglione, vicequestore a Gravina di Puglia (Bari) in servizio a Genova per il G8, ha riferito di aver consegnato a un reparto della polizia due bottiglie molotov rinvenute in Corso Italia durante i disordini nel tardo pomeriggio del 21 luglio. Guaglione lo scrive nella relazione di servizio, ma manca il verbale di sequestro delle due molotov (considerate armi da guerra dal codice). L'assenza di questo verbale insospettisce i PM Pinto e Zucca, che decidono di interrogare Guaglione per rogatoria dalla procura di Bari. Al funzionario vengono mostrate le due molotov sequestrate alla Diaz, omettendo che si trattava di quelle. Guaglione le riconosce subito come quelle ritrovate in corso Italia, perché ricorda le etichette di noti vini. Guaglione riferisce di aver consegnato i due ordigni, poco dopo il ritrovamento, al dott. Donnini, il quale li ripone all'interno di un mezzo blindato con cui è giunto sui luoghi. La circostanza è confermata da Donnini, che sostiene tuttavia di non essersi più occupato delle bottiglie, rimaste a bordo del Magnum fino al suo arrivo in Questura. E proprio dal Magnum di Donnini, guidato dall'agente Michele Burgio (che successivamente ai fatti si è dimesso dalla Polizia), con a bordo il vicequestore Pietro Troiani, le due bottiglie incendiarie finiscono alla Diaz. Nel giugno del 2002 i PM individuano un filmato dell'emittente genovese Primocanale, che mostra il gruppo dei funzionari più alti in grado nel cortile della scuola Diaz con il sacchetto azzurro contenente le due bottiglie molotov. Si capisce così in quali mani sono finite le due bottiglie, portate dall'agente Burgio su ordine del vicequestore Troiani. Attorno al sacchetto azzurro il video mostra Luperi, Caldarozzi, Murgolo, Gratteri, Canterini. Nessuno di loro, fino a quel momento, aveva ammesso di aver visto le molotov nel cortile. I PM mostrano il filmino agli autorevoli indagati. Luperi, dopo aver visto l'episodio, perde la parola: da quel momento si rifiuta di rispondere. Gratteri risponde ancora e se la prende con il reparto di Canterini. Sa che non potrà evitare la richiesta di rinvio a giudizio. L'unico che si salva è Murgolo, l'ex vicequestore di Bologna oggi vice direttore del Sismi, il servizio segreto militare. I PM chiedono l'archiviazione perché Murgolo è presente per rappresentare il Prefetto Andreassi, rimanendo al di fuori delle due catene di comando individuate dall'indagine: quella degli uomini delle squadre mobili, facente capo ai dirigenti dello SCO Gratteri e Calderozzi, e quella degli uomini delle Digos facente capo ai dirigenti della polizia di prevenzione, La Barbera e Luperi. Gli interrogatori chiariscono che le molotov sono arrivate nel cortile portate da Burgio su ordine di Troiani, che ancora oggi non si sa bene cosa facesse lì. Secondo Troiani, assistito dall'avvocato Alfredo Biondi (senatore di Forza Italia ed ex Ministro della Giustizia), le due bottiglie finiscono in mano a Massimiliano Di Bernardini, suo pari in grado. Quest'ultimo ammette di averle viste nel cortile in mano ad altri, ma nega di averle prese. Tutti gli indagati sostengono, pur essendo investigatori esperti, di non essersi informati sulla provenienza di quelle "armi da guerra". Dove erano state trovate? Da chi? Nel verbale di sequesto si legge: «n. 2 bottiglie contenenti liquido infiammabile e innesco, (cosiddette "molotov"); a tal proposito si fa rilevare che le bottiglie si trovavano nella sala d'ingresso ubicata al pian terreno». Questa circostanza, quindi, al termine dell'indagine, risulta falsa e calunniosa. Non è l'unica, peraltro: nei verbali le stecche degli zaini sono indicati come spranghe, armi improprie, e un ricco catalogo di altri oggetti atti a offendere è ricavato dagli attrezzi del cantiere che si trovava all'interno della scuola in un locale chiuso prima dell'arrivo della polizia. Nel maggio del 2002 i PM ricevono la perizia del RIS (Reparto Investigazioni Scientifiche) dei carabinieri di Parma, relativa al giubbotto e al corpetto antiproiettile di Nucera, che aveva dichiarato di aver ricevuto una coltellata da un manifestante durante l'irruzione alla Diaz. Nella relazione del Colonnello Garofano si legge che le prove sperimentali di taglio effettuate hanno sempre dimostrato un pressoché perfetto allineamento tra le lacerazioni presenti sul giubbotto e quelle sottostanti prodotte sul paraspalle. Al contrario i tagli presenti sul giubbotto non risultano allineati a quelli sottostanti presenti sul paraspalle. Esiste pertanto una evidente incompatibilità tra i tagli presenti sugli indumenti in reperto e quelli ottenuti sperimentalmente secondo le dinamiche che è stato possibile evincere dalle affermazioni del Nucera. L'agente Nucera cambia quindi versione: a quindici mesi dai fatti dice che le coltellate erano state in realtà due. Successivamente, con la procedura dell'incidente probatorio, interviene una seconda perizia, affidata dal GIP al dottor Carlo Torre, già responsabile di aver inquinato l'indagine sull'omicidio di Carlo Giuliani suggerendo la tesi del calcinaccio assassino che avrebbe deviato il proiettile. A giudizio di Torre il secondo racconto di Nucera è compatibile con i tagli riportati su giubbotto e paraspalle. Per i periti delle persone offese gli indumenti riportano lacerazioni che fanno pensare ad almeno quattro distinti colpi. Il 13 dicembre 2004 il giudice dell'udienza preliminare Daniela Farraggi rinvia a giudizio tutti i 28 indagati per tutti i capi di imputazione: una vittoria politica importante e niente affatto scontata. Il 6 aprile 2005 si apre il processo, che entra nel vivo nell'autunno del 2005 e prosegue con un buon ritmo, 2 udienze settimanali, circa 60 fino ad oggi. Il collegio del GLF è composto da circa 40 avvocati. Sono testimoni del PM, come parti offese, i 93 arrestati alla scuola Diaz, quasi tutti già ascoltati. Le testimonianza sono drammatiche. A distanza di cinque anni emergono ancora vividamente il terrore e il senso di impotenza di fronte a una violenza inaudita e ingiustificata. Gli stranieri sono in genere quelli che hanno sofferto maggiormente. Dopo l'esperienza di Bolzaneto e del carcere molti di loro sono stati rispediti in patria senza documenti e effetti personali, con un procedimento amministrativo di espulsione del tutto illegittimo per cittadini UE (sul quale infatti tutti i ricorsi sono stati vinti). Nel corso del dibattimento, nessuno degli imputati si è mai presentato in aula. I pochi poliziotti finora chiamati a testimoniare nel processo si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, in quanto indagati poi archiviati.
BOLZANETO
«Li hanno picchiati, da quando sono usciti dai cellulari a dentro le stanze della caserma di Bolzaneto». Sono le dichiarazioni di due agenti di polizia penitenziaria, che ammettono nel gennaio del 2004 le violenze contro i manifestanti arrestati durante il G8, grazie alle quali si riapre l'inchiesta sulle torture all'interno della caserma. Una svolta decisiva giunta quando ormai l'inchiesta dei pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati stava per chiudersi con l'invio di 43 avvisi di chiusura indagini nei quali si ipotizzavano però solo reati come abuso d'autorità sui detenuti, abuso d'ufficio e falso ideologico. In particolare erano state accertate "angherie nei confronti dei manifestanti arrestati, ma non vere e proprie violenze fisiche". L'11 maggio 2004 i sostituti procuratori hanno firmato 47 richieste di rinvio a giudizio per le violenze nella caserma della Polizia di Bolzaneto. Le accuse diventano più pesanti e sono a vario titolo quelle di abuso d'ufficio, violenza privata, abuso di autorità contro detenuti o arrestati, violazione all'ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Il 12 ottobre 2005 si è aperto il dibattimento del processo contro 45 tra funzionari, agenti di polizia, carabinieri, agenti penitenziari e personale sanitario, per le violenze e gli abusi nei confronti dei manifestanti fermati o arrestati a Genova durante il G8 e portati alla caserma di Bolzaneto, adibita a centro di detenzione in occasione del G8. Degli imputati, quattordici sono appartenenti alla polizia penitenziaria, dei quali il più alto in grado è il generale Oronzo Doria. Cinque sono medici e paramedici dell'amministrazione penitenziaria, compreso il responsabile sanitario del carcere provvisorio del G8, Giacomo Toccafondi, a cui i PM contestano tra l'altro violazioni dell'ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Quattordici sono appartenenti alla polizia di stato, a cominciare dal vicequestore Alessandro Perugini, all'epoca vicecapo della Digos di Genova, nel frattempo sotto processo anche per l'aggressione a un manifestante minorenne, e l'ispettore Anna Poggi, vicequestore a Torino. Dodici sono carabinieri tra cui un tenente, Giammarco Braini. I reati contestati a vario titolo sono: abuso d'ufficio, abuso d'autorità su arrestati, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce e falso ideologico relativamente ai verbali in cui si affermava che gli arrestati erano stati informati dei loro diritti, e che rinunciavano ad avvisare parenti e consolati. Sono stati denunciati anche insulti di stampo fascista e imposizioni umilianti come gridare "viva il duce", tuttavia nessuno degli imputati è stato accusato di apologia del fascismo. Secondo la memoria depositata a marzo del 2005 dai PM, a Bolzaneto fu violato l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Applicando i criteri della Corte di Strasburgo si rientra precisamente in quest'ultima definizione. La prima udienza del dibattimento è fissata al 12 ottobre 2005. Il tribunale ha disposto un calendario fitto di udienze, due o tre alla settimana, e dall'inizio del 2006 si sta svolgendo l'esame delle parti offese: racconti dell'orrore, di violenze, insulti, botte e umiliazioni. Durante le udienze sono stati effettuati anche importanti riconoscimenti fotografici: Antonio Gugliotta, "capo" della penitenziaria presente a Genova, il medico Giacomo Toccafondi, che esercitava la professione in tuta mimetica e collezionista di "trofei" presi ai manifestanti che passarono per le sue mani, ed alcuni agenti di polizia penitenziaria tra cui Cerasuolo Daniela, Salomone Massimo e Mancini Diana. Il processo procede speditamente, ma non è affatto scontato che possa arrivare ad una sentenza: nel 2008 infatti la maggior parte dei reati contestati cadranno in prescrizione. Se non si dovesse giungere ad un accertamento delle responsabilità, si renderebbe molto più complicata la causa civile per il risarcimento delle parti offese. Dalle testimonianze emergono sempre più chiaramente alcuni dettagli: il "benvenuto" che veniva riservato ai fermati, le due ali di agenti schierati ai lati del corridoio, che prendevano a calci, schiaffi e pugni le persone costrette a passarvi in mezzo, facendo sgambetti per potersi accanire su chi cadeva a terra. I fermati e gli arrestati in cella erano costretti a tenere le braccia alzate appoggiate al muro, il volto rivolto alla parete e le gambe divaricate. Posizione che dopo parecchie ore creava forti dolori e crampi, e a chi si muoveva veniva imposto di riprendere la posizione a forza di botte. In infermeria le persone dovevano spogliarsi completamente e fare flessioni davanti a numerosi agenti. Non venivano prestate cure ai feriti, alcuni hanno subito qui ulteriori violenze. Nelle celle è stato spruzzato gas urticante, a volte direttamente negli occhi. Chi è andato ai bagni ha subito umiliazioni di ogni tipo. Soprattutto le donne, ovviamente, hanno subito minacce di violenza sessuale, e altre umiliazioni, come il rifiuto degli assorbenti igienici a chi aveva le mestruazioni. Entro la fine di quest'anno dovrebbero essere ascoltate tutte le parti offese e inizieranno le audizioni di alcuni dei funzionari presenti a Bolzaneto. All'inizio del 2007 potrebbe essere completata la lista dei testimoni dell'accusa, composta da circa 300 persone. Per Alfonso Sabella, allora ispettore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP) e coordinatore di tutte le attività nella caserma di Bolzaneto - ex PM a Firenze e attualmente giudice a Roma - i PM Petruzziello e Ranieri Miniati avevano chiesto l'archiviazione, non accolta però dal gip Lucia Vignale che il 1 marzo del 2006 ha disposto che i PM formino un autonomo fascicolo processuale a carico di Sabella e un prolungamento delle indagini di nove mesi. Sabella stesso, tra l'altro, si era opposto alla richiesta di archiviazione chiedendo un supplemento di indagini per "uscire completamente pulito da questa vicenda". Secondo il giudice i Pm dovranno accertare la frequenza e la durata delle visite che Sabella fece durante le visite alla caserma di Bolzaneto, controllando i suoi tabulati telefonici durante i giorni del G8 per ricostruire con esattezza la durata dei suoi spostamenti. Sabella è indagato per abuso d'ufficio e abuso di autorità contro arrestati e detenuti.
ALIMONDA
Il procedimento per l'omicidio di Carlo Giuliani è stato archiviato nel 2003 dal gip Elena Daloiso, che ha accolto la richiesta di archiviazione formulata dal PM Silvio Franz. Secondo la tesi del Pm il proiettile che uccise Carlo Giuliani fu deviato da un sasso e, in ogni caso, il carabiniere Placanica sparò per legittima difesa. Non è stato tenuto in nessun conto la ricostruzione dei periti di parte offesa che avevano dimostrato, incrociando le immagini relative al lancio del sasso con i rumori dello sparo, l'impossibilità fisica della ricostruzione proposta dal PM.
Inoltre, nel decreto di archiviazione il gip evita accuratamente di ricostruire le fasi antecedenti alla morte di Carlo, quelle cioè relative alla carica dei carabinieri al corteo autorizzato dei disobbedienti, decontestualizzando in questo modo la reazione dei manifestanti e le drammatiche conseguenze che ne seguirono.
Proprio la ricostruzione dei fatti di piazza Alimonda è stata invece al centro, nel corso del 2005, di numerose udienze all'interno del processo a carico dei 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio, perché alcuni capi di imputazione riguardano proprio l'assalto al defender a bordo del quale si trovava Mario Placanica.
La situazione in cui avviene l'omicidio è conseguenza di una carica dei carabinieri in via Caffa, nel tratto che collega via Tolemaide a piazza Alimonda. La CCIR Echo (una delle "Compagnie di Contenimento e Intervento Risolutivo costituite ad hoc per il G8 di Genova) arriva a contatto con il corteo ma viene respinta. Segue una fuga disordinata. Il defender con a bordo Placanica si blocca davanti ad un cassonetto. La carica, di cui si è assunto la responsabilità il vicequestore aggiunto Adriano Lauro, risulta frutto di un errore di valutazione: i carabinieri erano in inferiorità numerica e in cattive condizioni psicofisiche. Non si spiega poi la presenza dei due defender dietro il plotone. Il capitano Claudio Cappello, che comandava quella CCIR, ordinò a Placanica di montare su uno dei mezzi perché "affetto da problemi psicomotori". Poi Cappello si disinteressa dei mezzi, dando per scontato che si sarebbero allontanati. Secondo Cappello quei mezzi non blindati e, quindi, non adatti all'ordine pubblico, non avevano ragione di restare lì. Cappello è un esperto di ordine pubblico; ufficiale dei paracadutisti del Tuscania, più volte in missioni all'estero, in Israele, Bosnia, e in Somalia (dove i militari italiani furono implicati in episodi di torture e violenze sulla popolazione) e attualmente impiegato in Iraq. E' uno dei primi che si avvicina immediatamente a Carlo a terra, ma sostiene di aver ritenuto che fosse stato investito, nonostante ci siano foto che mostrano la sua presenza accanto al corpo mentre uno zampillo di sangue esce dallo zigomo. Il colonnello Truglio, il più alto funzionario dei CC presente in piazza Alimonda, non è ancora venuto a deporre perché anche lui impegnato in Iraq.
Restano molti dubbi su quello che sia accaduto esattamente all'interno del defender nei momenti immediatamente precedenti lo sparo. Le testimonianze di Cavataio e Raffone, i due carabinieri che erano sul mezzo con Placanica, sono state a dir poco confuse, mentre l'ex carabiniere Mario Placanica si è avvalso della facoltà di non rispondere, in quanto indagato in procedimento connesso, per quanto archiviato.
Un altro elemento emerso nel corso delle udienze è misterioso quanto agghiacciante: il collegio difensivo, mostrando in sequenza cronologica alcune immagini immediatamente successive all'omicidio, ha fatto rilevare la presenza di una ferita a forma di stella sulla fronte di Carlo Giuliani, visibile quando i sanitari gli tolgono il passamontagna, e la comparsa di un sasso insanguinato vicino al corpo solo dopo che le forze dell'ordine hanno riconquistato la piazza e hanno formato un cordone per circondare il corpo di Carlo.
Intanto i legali della famiglia Giuliani, hanno presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'uomo a Strasburgo, contestando la sussistenza della legittima difesa e lamentando l'assenza di un'inchiesta indipendente.
La Corte di Strasburgo ha chiesto alcuni chiarimenti al Governo italiano, in particolare in merito alle direttive che sono state date alle forze dell'ordine, alla gestione dell'ordine pubblico e all'uso delle armi, dimostrando in generale un interessamento per la "gestione della piazza" e la ricostruzione generale dei fatti che hanno portato alla morte di Carlo.