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Seveso trent'anni dopo
Fabio Dalmasso
Fonte: Carta
10 luglio 2006

"Era il dieci luglio di una terra senza colpa" cantava Antonello Venditti nella sua "Canzone per Seveso", brano dedicato a uno dei più gravi incidenti della storia italiana, l'episodio che trasformò un anonimo paese della Brianza in sinonimo di incuranza e disattenzione, menzogne e coperture. Era il 10 luglio 1976, un sabato di trenta anni fa, l'ora di pranzo, le 12:37. In un'Italia sconvolta dal terrorismo la valvola di sicurezza di un reattore della fabbrica Icmesa esplode provocando la fuoriuscita di una nube tossica contenente una miscela di circa 3 mila chili di inquinanti, fra cui la diossina, un gas altamente tossico per la salute umana e per l'ambiente.
Il vento trasportò la nube verso i paesi vicini: Desio, Cesano Maderno e la stessa Meda furono colpiti, ma Seveso diventò in breve il centro dell'emergenza e simbolo della tragedia, che assunse i tratti della farsa. La proprietà della ditta, il gruppo farmaceutico svizzero Hoffmann - La Roche, minimizzò l'accaduto, per una settimana disse di non sapere quali sostanze fossero presenti nella nube. Nel frattempo gli abitanti ebbero paura: videro le foglie delle piante accartocciarsi e coprirsi di buchi, la corteccia degli alberi si staccò dal tronco, l'erba nei campi diventò gialla e iniziarono a morire i primi animali da cortile.
Dopo cinque giorni il sindaco emise un'ordinanza di emergenza nella quale si vietava di toccare la terra, gli ortaggi, l'erba e di consumare frutta e verdura. Mentre gli esperti assicuravano che non c'era da preoccuparsi, alcuni bambini iniziarono a presentare macchie rosse sul viso, eruzioni cutanee e pustole. Erano il sintomo dell'esposizione alla diossina, i cui effetti furono divulgati sin dal 1953, quando un episodio simile a quello di Seveso colpì una fabbrica della Basf in Germania. Gli addetti ai lavori sapevano bene che con il surriscaldamento dei materiali di lavorazione si sarebbe formata diossina, ma si sapeva anche che, aumentando la temperatura, i tempi di reazione chimica dei prodotti sarebbero diminuiti e si sarebbe ottenuta una maggior produzione in una minore quantità di tempo. Si vociferò anche di una possibile produzione di componenti per armi chimiche, come il tristemente famoso Agent Orange, i cui effetti sulla popolazione furono simili a quelli riscontrati a Seveso. Il direttore dello stabilimento brianzolo dichiarò che "le armi non sono state fabbricate all'Icmesa, ma l'impianto era predisposto per fabbricarle se ce ne fosse stato bisogno. Non era necessario modificarlo: bastava semplicemente aumentare la temperatura della reazione". Esattamente la causa che scatenò la rottura della valvola di sicurezza e la fuoriuscita della nube tossica. Supposizioni e ipotesi che non fecero altro che creare un clima di rabbia e dolore tra i cittadini che si videro costretti ad abbandonare le proprie case quando l'intera zona venne suddivisa in varie aree a seconda del livello di contaminazione: una zona a (alta contaminazione), una zona b (media contaminazione) e una zona R o "di rispetto" (bassa contaminazione).
I 735 abitanti della zona a vennero evacuati a partire dal 26 luglio, cioè due settimane dopo l'incidente; recintata e controllata militarmente, la zona subì una radicale bonifica con l'abbattimento delle case e la scarificazione del terreno: sogni, speranze e futuro vennero abbattuti assieme ai muri di quelle abitazioni contaminate, dando il via a un periodo di incertezza e paura in residence e motel.
Si diffuse il timore di malformazioni ai nascituri ma molte donne decisero di ricorrere all'interruzione di gravidanza, grazie a una concessione governativa (la legge sull'aborto verrà solo nel 1978). "Se dovesse succedermi di rimanere incinta adesso farò di tutto per abortire" dichiarò una donna a Marcella Ferrara nella sua inchiesta "Le donne di Seveso", ritratto lucido e preciso delle donne sfollate di Seveso.
Per la bonifica del territorio contaminato vennero costruite due discariche speciali, due grandi vasche nella quali furono sotterrati i resti degli immobili e i terreni inquinati; i costi vennero coperti dalla Hoffmann - La Roche che chiuse i suoi procedimenti penali per il disastro con due accordi economici, uno con la Regione Lombardia e uno con lo Stato italiano. Due soli dirigenti dello stabilimento furono perseguiti penalmente, ma nel 1985 la condanna per disastro e lesioni colpose fu sospesa in appello con la condizionale.
La Roche non si è mai assunta la responsabilità dell'incidente, anzi, pare che nel 2005 si sia appigliata a un cavillo giuridico per chiedere a ventuno abitanti della zona la restituzione della somma pagata per i danni morali.
Seveso darà il nome a una serie di direttive riguardanti proprio il rischio di incidente nell'attività degli stabilimenti industriali: giunta alla "Seveso 3", la serie di direttive stabilisce obblighi e prescrizioni inerenti gli innumerevoli impianti particolarmente pericolosi e prevede la consultazione della popolazione nella pianificazione delle emergenze.
Il Ministero dell'Ambiente censisce attualmente 1.120 stabilimenti a rischio nel nostro paese: 462 sono a elevato rischio chimico - industriale. Di Seveso rimane il ricordo delle fotografie, con i bambini dal viso deturpato, i tecnici in tute bianche che controllano il terreno e le case abbandonate e vuote.
Una tragedia che non deve essere dimenticata, ma anzi deve essere ricordata in un momento come questo in cui la corsa all'energia guida amministratori e ministri a favorire opere di indubbia pericolosità, spinti dalla logica del profitto più che dalla sicurezza dei cittadini.