11 marzo 2006: in una campagna elettorale deprimente, irrompono gli scontri di Milano.
Via Buenos Aires: circa 200 giovani appartenenti a centri sociali vogliono impedire il corteo della Fiamma Tricolore, ma l'iniziativa sfocia in duri scontri con la polizia.
Molto si è detto su quegli incidenti, stigmatizzandone giustamente la violenza, totalmente controproducente. Anch'io pensavo di avere molto da dire, ma di fronte a certi commenti mi è sembrato di ritrovarmi davanti ad un mondo rovesciato; e mi sono mancate le parole.
Le dichiarazioni degli esponenti del centrosinistra, pressochè senza esclusioni, sono apparse troppo timide nel ricordare a Berlusconi (che ha dichiarato "hanno cercato di rendere impossibile una civile riunione di un nostro alleato") che "civile" non compare fra i tanti aggettivi con cui definire quell'alleato. D'altro canto, alcune dichiarazioni apparse su internet da parte di chi solidarizzava con i manifestanti e gli arrestati non sono apparse meno sguaiate.
A sinistra, ognuno ha cercato di sottolineare la "genuinità" del proprio antifascismo, negando quella altrui. Da una parte gli antifascisti "militanti e combattenti" criticano quelli "salottieri"; dall'altra parte i "saggi", che hanno compreso l'universalità della lezione della non violenza, ritengono gli altri dei sognatori, dei teppisti, dei ragazzini in cerca di visibilità, a seconda della modulazione con cui hanno formulato le critiche.
Sto tranciando giudizi sommari e applicando antipatiche etichette, lo so, e non mi è consueto. In parte lo faccio per motivi di sintesi; in parte, come detto, perché sono rimasto con poche parole, e quelle poche sono amare.
Certo, si può e si deve sottolineare che anche in questa occasione chi gestisce l'ordine pubblico è sembrato assai poco interessato a prevenire gli scontri. Era davvero impossibile fermare chi fra le persone arrivate a Milano si era presentato con un armamentario da guerra civile? O forse si è preferita l'attesa, per avere tramite gli scontri una ghiotta carta da gettare sul tavolo da gioco della campagna elettorale?
Ma quest'ultima considerazione, anch'essa praticamente esclusa dai commenti del centrosinistra o comunque espressa troppo sommessamente, mi fa venire in mente il luglio 2001... Genova ci ha dato lutti e dolore, ma anche un grande insegnamento: la strategia principale del potere verso il movimento ("antagonista", "new global", "altermondista", o qualunque etichetta vaga e insufficiente per definirne la molteplicità di sfaccettature si voglia cercare) non si basa solo sulla repressione o sulla "repressione preventiva", ma si basa anche e soprattutto sul tentativo di dividere il movimento stesso al suo interno; o, per meglio dire, nel cercare di enfatizzare le divisioni presenti.
Fra poche settimane ci si ritroverà a parlare di antifascismo e di resistenza, in occasione del 25 aprile. Un auspicio: che non sia solo una vuota ricorrenza commemorativa; che l'unità degli antifascisti e l'attualità dei valori della resistenza non siano solo parole con cui riempirsi la bocca e condire una manifestazione. Tutto questo se vogliamo davvero dimostrare che la lezione della resistenza l'abbiamo imparata e fa parte del nostro patrimonio di idee.
Ma, a giudicare da quanto ho visto e sentito in questi giorni, sono tristemente portato a pensare che così non sarà. Temo che, passato il momento dell'emozione e del ricordo, "giovani militanti" e "salottieri" (per usare ancora quella divisione banale in cui io stesso NON credo) resteranno più interessati a sottolineare le differenze gli uni dagli altri, magari cercando di connotare come DOCG il proprio antifascismo, e cercando di accreditarsi come unici epigoni della stagione della resistenza partigiana.
Non lasciamo che il potere spezzi l'unità degli antifascisti: non è ancora troppo tardi per smentirmi.