Tornerà a salire, oggi stesso, le scale di Via Mentessi. Nella sede della procura ferrarese, stavolta, la signora Lucia Bassi potrà deporre alla presenza non solo del pm ma dei legali della famiglia Aldrovandi. La donna, infatti, abita in una palazzina di tre piani proprio di fronte al cancello dell'ippodromo dove gli operatori del 118, lo scorso 25 settembre, trovarono il corpo «inanimato», ammanettato e a faccia in giù, di un diciottenne che era stato fermato per controlli, alcuni minuti prima, da una volante della polizia che poi aveva chiamato rinforzi.
E' lei la signora che s'era confidata con una donna, pochi giorni dopo i fatti, e alla quale avrebbe rivelato dettagli sugli ultimi istanti di Federico. Dettagli molto diversi dalla versione ufficiale della questura che prima divulgherà la tesi del malore fatale poi correggerà il tiro dipingendo il quadro in cui un ragazzo forsennato, in preda alla droga, avrebbe aggredito gli agenti saltando sulla loro pantera.
La seconda signora aveva accettato di parlare dopo il clamore suscitato dal blog della famiglia e degli amici di Federico grazie al quale, dopo cento giorni di silenzio-stampa, s'erano accesi i riflettori sulla vicenda. E' lei a riferire, lo ripeterà alle telecamere di "Chi l'ha visto? ", che la signora Lucia avrebbe sentito una voce domandare "Chissà se davvero ti chiami Federico, mi sa che sei un extracomunitario". E poco dopo, la voce di una donna con accento veneto: "tienilo fermo, mettigli le manette". Seguiranno attimi concitati, si sentivano i rantoli del ragazzo che chiedeva aiuto e diceva "Non respiro". "Adesso ti aiuto io" gli avrebbe risposto qualcuno. Poi il silenzio, rotto dalla voce veneta: "Che cosa hai fatto? Ma quando arrivano i colleghi?! ". Una scena che si sposa con quella fornita da chi ha raccontato di un agente che teneva immobile il ragazzo atterrato con un ginocchio sulla schiena e un manganello puntato alla gola mentre con l'altra mano gli tirava i capelli.
Dettagli che la signora Bassi potrebbe precisare meglio nella deposizione di oggi che segue altre deposizioni raccolte dalla procura solo dopo l'accelerazione impressa alle indagini dall'attivismo della famiglia e dei suoi legali, Fabio Anselmo e Riccardo Venturi. Solo venerdì scorso, altri testimoni avevano corretto una precedente deposizione più edulcorata ma resa senza la presenza della parte civile. Un particolare ulteriore che segnala il clima avvelenato in cui si consuma l'attesa di un'autopsia che è prevista per il 27 febbraio. 156 giorni dopo i fatti. Troppi secondo molti osservatori.
E ad avvelenare l'aria non sarebbe solo il famigerato petrolchimico, gemello di quello di Marghera. Altri testimoni hanno riferito di tentativi della mobile per accreditare, anche con pressioni sul Sert, il ritratto di un ragazzo "tossico" (come se consumare sostanze fosse una ragione per crepare ammanettati in mezzo alla strada). La perizia tossicologica ha già smentito che le lievi tracce di sostanze trovate nel sangue di Federico potessero aver causato la morte. Il migliore amico di Federico s'è visto mettere sotto il naso, per firmarla, una dichiarazione secondo la quale "Aldro", come lo chiamavano tutti, avrebbe fatto il "pizza-express" per «pagarsi la dose». L'amico non volle firmare quel verbale che però sarebbe ancora, nella versione non corretta, nelle carte della pm.
Intanto la controinchiesta cerca di andare avanti ma l'altroieri è stata depositata in procura la relazione di un investigatore assunto, tramite i due legali, dalla famiglia Aldrovandi. Nella sua relazione, l'investigatore racconta l'inaspettata visita della polizia a casa di una persona da lui stesso contattata. Al teste sarebbe stato domandato se «il ragazzo era un drogato, uno scalmanato enorme, una bestia alta un metro e novanta e pesava più di 100 kg». Ma Federico era un ragazzo sportivo e asciutto, alto manco uno e 80 per 70 chili. Se confermate, queste circostanze confermerebbero le interferenze pesanti in indagini partite, secondo molti, col piede sbagliato visto che chi comanda la polizia giudiziaria della procura è legato sentimentalmente alla poliziotta con l'accento veneto in azione all'ippodromo quel mattino del 25 settembre 2005. Dalla scena dei fatti, gli agenti riporteranno solo vaghe ed evasive testimonianze raccolte tra i dirimpettai dell'ippodromo. Una di queste, ad esempio, ricorda che il ragazzo avrebbe gridato «Stato merda!», o giù di lì. Ma poi, interpellato da Liberazione, quel teste ammette di non ricordare se la frase esatta fosse «Stato merda!» oppure «Sono stato una merda!». Un mistero.
Ma il mistero più grande restano le modalità del controllo di polizia. Che non potesse essere il «malore fatale» suggerito alla stampa fu lampante già agli occhi di chi, lo zio paterno Franco, si trovò a riconoscere il cadavere di Federico. Pieno di botte in faccia e sulla nuca - spiegheranno i medici ai legali - sfigurato, con lo scroto spappolato e gli occhi cerchiati da capillari rotti, sul collo un paio di lividi da compressione. Contraddittori anche i rapporti di servizio dei due equipaggi che, nel frattempo, erano scappati in ospedale a farsi refertare. Uno di loro avrebbe avuto addirittura una prognosi di 20 giorni ma tutti hanno preferito tenere nascosto il dettaglio rivelatore di un "contatto" tra il giovane e i poliziotti. Quando arriva il 118, gli agenti spiegano che il ragazzino si sarebbe accasciato dopo essere stato ammanettato. Delle relazioni al comando, una spiegherebbe che tutti e quattro sarebbero stati trascinati a terra dal diciottenne, l'altra che solo uno sarebbe finito sull'asfalto con Federico.