La puntata di "Blu notte - Misteri italiani" di domenica 2 ottobre sugli anni Settanta e la violenza politica potrebbe vantare una positiva differenza rispetto ad altri programmi che sono intervenuti sullo stesso tema: i materiali di repertorio (assai più che non le interviste, assai frammentate) e lo stesso elenco sterminato di morti dovrebbero rendere assai difficile continuare nella finzione, più o meno interessata, di considerare quegli eventi quali un fenomeno di impazzimento di massa o una manifestazione di inarrestabile pulsione criminale di qualche migliaio di giovani militanti, di destra e di sinistra.
Così pure, vedendo quella sequenza e quell'elenco è parimenti difficile continuare a sostenere che un conto erano gli anni Settanta e la violenza politica espressa (e organizzata) dai gruppi extraparlamentari e radicalmente altro ciò che è successo dopo, qualificato come terrorismo, prima solo dalle destre e poi da tutti. La continuità, ancorché pervicacemente negata e rimossa da troppi, è infatti più forte della rottura, e sarebbe miope o disonesto non riconoscerle entrambe.
Pure, e contradditoriamente, la puntata di "Blu notte", nonostante l'indubbia bravura di Lucarelli e della sua redazione, ha avuto l'effetto opposto, vale a dire quello di non fare comprendere agli spettatori, specie se giovani, come si sia arrivati alla catena di morti, lasciando in definitiva del tutto impliciti questi nessi, preferendo adagiarsi o comunque scivolando nella più comoda categoria degli "opposti estremismi", non volendo o non osando incrinare per davvero quello che efficacemente Andrea Colombo ha definito «un tabù, ormai interiorizzato quasi ovunque, che vieta di interrogarsi sulla natura della crisi italiana degli anni Settanta e costringe a leggerla come un'epopea criminale», per giunta «priva dei moventi che innescano le guerre criminali» (vedi "il manifesto", 4 ottobre 2005).
Eppure, basterebbe partire da una domanda assai semplice quanto costantemente elusa: Come è cominciata? E perché? O fornire qualche cifra e sequenza cronologica, così da costringere le opinioni, i sentimenti e le letture soggettive ad ancorarsi e fare i conti con i fatti.
Lucarelli cifre ne ha date poche. Ma sarebbe stato davvero necessario, e illuminante, per gli ascoltatori della prima serata RAI sapere che dal 1969 al 1973 il 95% degli attentati e degli atti di violenza politica avvenuti sono stati a opera della destra fascista, così pure l'85% nel 1974 e il 78% nel 1975 (cfr. D. Della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna 1984; Guido Crainz, Il Paese mancato, Donzelli 2003). O, utilizzando un'altra scansione temporale e una diversa fonte, che su 4.384 attentati o atti di violenza politica avvenuti tra il 1969 e il 1975, l'83% è stato di impronta neofascista (cfr. Eversione di destra, terrorismo, stragi, a cura di Vittorio Borraccetti, Angeli 1986).
Lucarelli ha dato altri numeri, comunque significativi ma assai parziali, concentrati appunto sugli opposti estremismi e sui reciproci agguati: ha detto che 26 giovani di sinistra sono stati uccisi da militanti di destra, mentre sono stati 17 i morti di destra uccisi da militanti di sinistra; aggiungendo che complessivamente quella stagione ha prodotto 452 morti e circa 4.500 feriti.
Cifre tremende. E certo potrebbe essere avvertito come sconveniente indagarle e suddividerle, e certo sarebbe cinico tentare di scomporle al fine di ricercare giustificazioni o di ricavarne supposti torti o ragioni. Pure, anche i numeri del sangue e del dolore vanno conosciuti e resi nel dettaglio se si vuole davvero rileggere e comprendere quella stagione.
Secondo una delle ricerche più approfondite (Vent'anni di violenza politica in Italia, 1969-1988, realizzata dall'International School on Disarmament and Reasearch on Conflicts e pubblicata nel 1992), nel periodo tra il 1° gennaio 1969 e il 31 dicembre 1987 si sono avuti in Italia 14.591 atti di violenza politicamente motivati contro persone o cose. I morti sono stati complessivamente 419 e i feriti 1.181. In parte maggiore si tratta di vittime dello stragismo (nelle otto stragi perpetrate in Italia tra il 1969 e il 1984 vi sono stati 149 morti e 688 feriti), cui occorre sommare le persone uccise dalle organizzazioni di destra e poi da quelle di sinistra e gli stessi militanti uccisi in agguati o conflitti a fuoco.
Altre fonti (La mappa perduta, ed. Sensibili alle foglie, 1994) quantificano in 128 le persone colpite mortalmente dalle organizzazioni armate di sinistra e in 68 i militanti di queste organizzazioni uccisi o deceduti, ma non sono qui ricompresi i morti "di movimento" e le vittime di scontri di piazza.
I numeri non sono tuttavia sufficienti a rispondere alla fondamentale domanda di cui sopra. Né a farci capire come sia avvenuto che «con un dilagante stupro del linguaggio, chi aveva commesso stragi o comunque coperto gli stragisti chiamava terroristi quanti spesso avevano imboccato la strada senza ritorno delle armi proprio per reazione alle bombe nelle piazze, sui treni, nelle stazioni, tra genti inermi usate come carne da macello per imporre a una generazione refrattaria ciò che oggi è norma ineluttabile». Sono parole di una recensione dello scrittore Pino Cacucci di un bel libro dal bellissimo titolo: L'amore degli insorti, di Stefano Tassinari (la recensione, pubblicata su "Liberazione" del 5 ottobre 2005, è scaricabile dal sito http://www.micciacorta.it).
È vero - continua Cacucci - che dire, come fa il libro «i morti sono morti, i nostri e i loro, e per di più non siamo stati noi a cominciare», potrebbe «far storcere il naso a certi "irriducibili" - che hanno se stessi come unico referente - convinti che "comunque" la rivoluzione andava fatta». E in effetti, in altre occasioni sia Adriano Sofri che Oreste Scalzone o Valerio Morucci, dalla loro diversa esperienza, coerenza e statura, hanno sostenuto che non è stata la strage di piazza Fontana a costituire l'innesco. Ma qui subentrano forse differenze anagrafiche, di sentimenti e di proponimenti, tra quanti ambivano a "prendere il potere" e coloro che si ribellavano all'ingiustizia; o, per dirla di nuovo con le acuminate e sapienti parole di Cacucci, tra i «ribelli come scintilla e scoppio di qualunque motore che tiene in movimento la democrazia» e i «rivoluzionari come futuri repressori o pentiti del proprio ardire».
Fatto sta che le memorie e le rappresentazioni di quegli anni sono spesso distanti dal vero e dal vissuto. E tanto è più potente e visibile la rappresentazione, tanto quella distanza si fa baratro.
Non sfugge a ciò il dibattito attorno all'evento cinematografico del momento, quel Romanzo criminale tratto dall'omonimo romanzo di un ottimo scrittore, il giudice Giancarlo De Cataldo, ora nelle sale e su tutti i giornali. Se ne è discusso anche su La7, nella puntata di "Otto e mezzo" del 5 ottobre, assieme al regista Michele Placido. E in effetti faceva impressione vedere come dal film e dalle parole dei protagonisti (autore, regista, attori) si cercava di sfumare sino a rendere invisibile e inconsistente una lampante verità, vale a dire i legami stretti tra la "banda della Magliana", di cui libro e film narrano le gesta, e la destra eversiva di quegli anni.
Una verità arcinota, sostanziata ad esempio nel sodalizio con Aldo Semerari, vero e proprio snodo con vari gruppi neofascisti dell'epoca, o nell'internità alla banda di Massimo Carminati o nelle cointeressenze con pezzi di servizi e con la P2, oltre che certificata in numerosi atti giudiziari (materiali sono reperibili sul sito http://www.misteriditalia.it del valido e competente giornalista Sandro Provvisionato). E viene da chiedersi perché queste lampanti e risapute verità non si possano più dire. O che senso abbia che De Cataldo, intervistato non amichevolmente da Roberto Silvestri, le annacqui in questo modo: «potrei risponderle che le alleanze con mafia, neofascisti e servizi deviati (ma perché dimenticare certi settori della massoneria?) furono di alcuni componenti dell'"ala testaccina" e non dell'intera banda» (cfr. "il manifesto", 6 ottobre 2005).
Cosa significa e cosa cambia? Perché non si può parlare del "romanzo criminale" della destra, assai fondato nella realtà e bisogna invece introdurre nel film una figura inventata e irrealistica, come quella di un fantomatico personaggio con un passato nel movimento studentesco e poi trafficante d'armi in Africa? Leggi e interessi della produzione (anche nel cinema, come nella politica e in ogni sfera dell'umano e ogni parte del globo domina suprema l'economia) o segno dei tempi? O forse solo il portato lungo e indelebile di una sconfitta. O magari perché bisogna occultare del tutto e per sempre quanto scrive Tassinari nel suo libro: «la certezza che si possa sbagliare dalla parte giusta», vale a dire il rifiutarsi di assumere tutte le colpe e le nefandezze del secolo scorso o di validare il sillogismo per il quale siccome i movimenti e la sinistra hanno perso ciò significa che loro, gli altri, avessero e abbiano ragione.
Certo oggi la sinistra è qualcosa di irriconoscibile se guardata con lenti di quegli anni. Quella nuova, giovane e più radicale, decisamente analfabeta al riguardo (basti leggere certi messaggi - ai più entusiasti della puntata di "Blu notte" - su "indymedia", che nonostante permanga come luogo virtuale utile perché libero, troppo spesso ricorda "radio parolaccia", il microfono aperto sperimentato da radio radicale che rivelò il grumo inacidito e un po' schifoso di culture, istinti e sentimenti che alberga nell'ombra e negli anfratti del popolo di destra e di quello di sinistra). E quella meno nuova, e anzi antica, quella intellettuale e quella istituzionale non di rado adagiatesi o trovatesi comunque prigioniere della subalternità della politica alla magistratura.
E proprio di questo parla Luciano Violante in una lettera a "la Repubblica" del 6 ottobre, rispondendo all'ex procuratore capo Saverio Borrelli: «la subalternità del sistema politico alla magistratura e l'anomalia del rapporto tra opinione pubblica e processi». Peccato che queste patologie vengano dal capogruppo DS riferite solo agli anni di Tangentopoli, successivi al 1992, quand'invece il vulnus e il disequilibrio tra poteri, le patologie del rapporto tra applausi e processi e della figura del "magistrato combattente" e le apologie delle manette (chi si ricorda l'allora segretario del PSDI affermare, dopo le torture su Br arrestati a Padova, che anche lui avrebbe volentieri partecipato al pestaggio assieme ai NOCS?) origina dall'emergenza antiterrorismo degli anni Settanta.
Violante conclude la sua lettera con queste parole: «Occorrerebbe che tutti i protagonisti avessero il coraggio di riflessioni aperte e franche, anche se inevitabilmente dure, su tutti quegli anni. Senza negazionismi e senza giustificazionismi. Altrimenti sarà difficile liberare il presente e il futuro dalle ombre del passato». Parole del tutto sottoscrivibili, solo se fossero coerentemente estese alle ferite degli anni Settanta. Che continuano a sanguinare e a dividere anche in conseguenza delle amnesie interessate di molti e della pesante cappa stesa dai mezzi di informazione. E su questo si veda un altro piccolo frammento di verità nascoste e distorte, che risalgono al 12 dicembre del 1969, raccontato sul suo blog dal giornalista dell'Espresso Pino Nicotri (anche questo testo è reperibile su http://www.micciacorta.it) e che chiamano in causa per omissione il programma di Lucarelli e quello di Minoli.
Allora si capisce meglio il commento un po' amaro di Silvestri a proposito di Romanzo criminale: «Siamo convinti che il film non restituisce il senso in più di quegli anni, semmai si irrigidisce, come molto cinema civile all'italiana, in un senso unico, consentito dalla legge».
Ma la posta in gioco non è tanto il personaggio inventato del film, quel Carenza con un passato nel movimento studentesco. È ben altro, e ben di più. È l'onore e la memoria autentica di una parte consistente della mia generazione, che accettando di allontanare da sé come incomprensibile, aliena e criminale la peggio gioventù - per usare il titolo di un altro libro in argomento -, accettandone anche l'eterna dannazione, non si è resa conto di recidere assieme e di rendere impronunciabile quel pezzo di senso e di verità del quale ora ci si sente menomati.
Sergio Segio
7 ottobre 2005