La Procura ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di reato di omicidio colposo sulla morte di Ben Hamdani Fethi, il tunisino che l'altra sera, durante le procedure del fermo, è sfuggito ai controlli degli agenti e, ancora ammanettato, si è lanciato dalla finestra al terzo piano del commissariato Viminale schiantandosi sul marciapiede di via Farini.
Un atto dovuto per il pm titolare dell'inchiesta, Paolo D'Ovidio, che per escludere qualsiasi coinvolgimento esterno ha disposto d'ufficio l'autopsia. L'esame è stato eseguito ieri pomeriggio dal medico legale Rosaria Aromatario dell'istituto di medicina legale della Sapienza, ma per gli esiti bisognerà aspettare.
Gli agenti
Il fascicolo comunque è stato aperto senza contestuali iscrizioni nel registro degli indagati: un atto dovuto per accertare se non ci siano state omissioni di controllo degli agenti durante la sorveglianza dell'indagato. Durante il sopralluogo il magistrato ha ascoltato gli agenti in servizio al momento dello schianto e tutte le ricostruzioni sono state concordanti.
"Ero rimasto da solo con il fermato nella stanza", ha spiegato l'agente che era presente quando il tunisino si è lanciato. "Sembrava scosso, ma non ubriaco e mi ha chiesto un bicchiere di acqua. Mi sono voltato di spalle un attimo per prendere la bottiglia e il bicchiere, senza allontanarmi, quando ho sentito l'urto contro le persiane accostate". Nel corso del sopralluogo gli investigatori hanno rilevato un'impronta di scarpa sulla sedia utilizzata dal tunisino per gettarsi nel vuoto.
La famiglia
"Lunedì mattina Ben è uscito presto per andare a Roma, poi mi hanno avvisato che era morto" dice la moglie del tunisino. Graziella Pasqualetti ha la voce rotta dall'emozione, parla piano per non farsi sentire dai quattro figli, ancora non ha detto loro che il padre non tornerà più. "Possono dire qualunque cosa di Ben, ma per noi era la luce, un gioiello di marito e di padre, io non posso dire altro e non mi interessa d'altro".
Graziella abita da anni una villa lungo la strada che gira intorno alla Rupe: dalle finestre un panorama incantevole, nel giardino ben tenuto i giochi per i bambini, una casetta a di legno e il dondolo.
Eppure per il dirigente del commissario di Orvieto, Ben Fethin Hendami non era certo uno stinco di santo: condannato in via definitiva per una violenza sessuale e per questo dal 2010 aveva vissuto per due anni agli arresti domiciliari, poi tanti piccoli reati consumati nel tempo: dallo spaccio di droga al furto. Una vita turbolenta che non aveva però mai incrinato il rapporto con Graziella, che appartiene ad una famiglia che gestisce da anni la gelateria più famosa di Orvieto. Il figlio più grande ha nove anni, quello più piccolo poco più di un anno.
Lui da tempo faceva il pendolare con Roma dove si arrangiava come factotum di una ambasciata. Lunedì mattina era partito presto come al solito, poi nel pomeriggio è finito in manette. "Per me era un gioiello di uomo - insiste la moglie Graziella - non posso pensare ad un suicidio. Ben non era certo il tipo".
La denuncia
L'ultima serie di guai giudiziari per Ben Hamdani Fathi comincia dalla denuncia di una ventiduenne: "Ha tentato di violentarmi". È una ragazza di 22 anni, cittadina italiana di origini venezuelane. Venerdì scorso si presenta al Commissariato Viminale insieme al suo ragazzo. È scossa. Racconta che il tunisino si sarebbe spacciato per un diplomatico degli Emirati Arabi.
I due si erano conosciuti qualche giorno prima nell'albergo in cui lei lavora, in via XX Settembre, e lui le aveva fatto credere di essere un facoltoso imprenditore che nel giro di poco avrebbe comprato l'albergo. Si rivedono giovedì, lui millanta conoscenze in alcune compagnie di volo, poi finiscono in un appartamento di via Bissolati. Le dice: è mio, ne ho altri. Poi, denuncia la ragazza, tenta di violentarla.
Il giallo della relazione con la donna di un agente
"Non c'era motivo perché si suicidasse, questa storia non mi convince, troppe stranezze: presenterò una denuncia querela, così mi ha chiesto la famiglia di Ben".
L'avvocato Michela Renzi conosceva da anni Ben Hamdani Fethi, il tunisino che la sera di lunedì si è lanciato dalla finestra del commissariato Viminale, al terzo piano dello stabile di via Farini, morendo sul colpo. "Eravamo diventati amici - dice l'avvocato - un bellissimo uomo e consapevole di esserlo".
A quali stranezze si riferisce, avvocato?
"Non era certo la prima volta che veniva fermato o processato o che andava in galera...".
Anche stavolta con l'accusa di violenza sessuale, peraltro.
"Una vicenda tutta ancora da chiarire. E comunque per il caso precedente, quello del 2010, avevamo fatto appello alla condanna a tre anni in primo grado. Era stato a Regina Coeli per un paio di settimane poi aveva fatto circa due anni ai domiciliari, a Orvieto. Escluderei che fosse entrato nel panico per la paura del carcere o cose del genere. Sapeva che gli sarebbe bastato farmi chiamare, l'avevo tirato fuori dai guai altre volte. Perché avrebbe dovuto uccidersi in quel modo uno così, con quattro figli che lo aspettano a casa...".
Perché, secondo lei?
"Guardi, proprio non riesco a darmi una spiegazione. Ho letto che forse pensava di essere al primo piano. Ma dico, anche se ti butti dal primo piano dove pensi di scappare? Ben non poteva non essere consapevole di tutto ciò".
Che lei sappia assumeva droghe?
"Che io sappia assolutamente no, così come non era solito neanche bere alcol".
Quindi?
"Qualche tempo fa mi aveva detto che un qualcuno del commissariato Viminale gli aveva giurato di fargliela pagare. Anche l'arresto precedente, per il caso del 2010, era avvenuto sempre nello stesso ufficio".
Perché qualcuno poteva avercela con lui?
"È una vecchia storia, ma credo che Ben avesse avuto una relazione o qualcosa di simile con una donna legata a qualcuno interno al commissariato, non so se agente o funzionario. E questo qualcuno gli avrebbe giurato di fargliela pagare. Così mi aveva detto Ben, ma è tutto da verificare".
Chi era Ben Hamdani Fathi?
"Era arrivato in Italia dalla Tunisia nei primi anni 80, aveva conosciuto la moglie Graziella a Roma credo, dove lei lavorava in una gelateria. Poi sono andati a vivere ad Orvieto, città di lei. Quattro figli piccoli. Un padre meraviglioso, sempre pieno di attenzioni. Ma non voglio dire che fosse uno stinco di santo, i suoi errori li aveva fatti".
Lei ha parlato da poco con la famiglia di Ben, ha ricostruito i suoi ultimi movimenti?
"Mi hanno detto che era tornato a Orvieto poco dopo la mezzanotte di venerdì, in treno come al solito. E lunedì mattina era tornato a Roma".
Sa che lavoro svolgesse?
"Faceva il free lance per una ambasciata araba, una specie di factotum: pensava all'alloggiamento del personale in arrivo a Roma o ad altre esigenze".