«Ma è vera questa storia che racconti?». La domanda ricorrente dei più giovani tra i lettori a Stefano Tassinari, autore di "D'altri tempi", è la spia del vuoto di memoria dentro cui vivono i rapporti tra le generazioni, i generi e quelli tra le classi e tra i Paesi. E, dentro le generazioni (e le classi e i generi e i Paesi) la dialettica tra rimozioni e monumenti alla memoria è spesso un falso movimento tutto inscritto nelle dinamiche di presentificazione indotte dall'industria culturale.
Decisamente in controtendenza, ecco dunque "D'altri tempi" che apre la collana di "Scritture resistenti" con cui le edizioni Alegre fanno la loro irruzione nel mondo della narrativa seguendo le stesse piste delle collane d'inchiesta e di teoria: i movimenti reali, i conflitti, i pensieri eretici. Tassinari sceglie stavolta la strada dei racconti, altro punto di sfida suo e dell'editore, che vanno a comporre quasi un romanzo sebbene fatto di racconti a proposito di «anni fatti di frammenti», quasi un concept album (riferimento tanto all'amore dell'autore per la musica rock quanto al ruolo della musica quando smette di essere solo un sottofondo). E quegli anni sono i Settanta, protagonisti reali dei racconti che Tassinari intende sottrarre ai teoremi polizieschi e agli anatemi revisionisti. «Fino al decennio iniziato nel '68 in questo Paese non esistevano diritti né civili né sindacali, ma in compenso il nostro codice prevedeva ancora il delitto d'onore e il reato di adulterio femminile, così come si votava a ventun anni e si andava in galera a diciotto, si veniva arrestati per obiezione di coscienza al servizio militare o per detenzione di un grammo d'hashish, c'erano le gabbie salariali tra nord e sud e tra uomini e donne, nei manicomi si "curava" la gente a colpi di elettrochoc, licenziare un lavoratore era un gioco da ragazzi». Nel virgolettato Tassinari fa parlare in uno dei racconti un testimone del Festival di Parco Lambro intervistato da un cronista molto più giovane e incapace di sganciarsi da una vulgata rancorosa su quel decennio che si compiace e abusa di tutte le metafore sul piombo. Questo passaggio è quasi un manifesto politico e letterario. Tassinari, classe 1955, in quei dieci anni studiò, si agitò assieme alla sua generazione - prima sulla scena bolognese poi a Roma nelle fila di Avanguardia Operaia. E alla fine non sarebbe tornato a casa. Da un quarto di secolo scrive romanzi e racconti (i più recenti per Tropea: "L'amore degli insorti" e "Il vento contro", scrive programmi per Radiorai 3, anima la scena culturale in teatri e dalle pagine dei giornali (Liberazione compresa) e dirige la Nuova Rivista Letteraria, semestrale di letteratura sociale. L'impianto di Tassinari è quello storico, centrato sui grandi conflitti del Novecento e dentro i nodi della memoria non condivisa - le eresie del comunismo, le rivolte, le rivoluzioni - e anche stavolta non tradisce le aspettative di chi lo segue con affetto per un lavoro che risarcisce la memoria e restituisce dignità a chi subisce operazioni di cancellazione dalla storia. Fosse un fotografo, Tassinari cancellerebbe le ombre e riempirebbe i vuoti creati dalle manipolazioni delle immagini tipiche dell'epoca staliniana. Il "passo breve" dei racconti gli consente di sperimentare, dentro quell'impianto storico - stili, scene, punti di osservazione e linguaggi in rapida successione: il racconto realistico e quello fantastico, il monologo, il racconto teatrale, quello epistolare, la prosa poetica, la scrittura in prima e quella in terza persona. Fatti e personaggi non sono affatto inventati e le coincidenze per nulla casuali. Tassinari racconta, dedicando a ciascuno degli anni uno dei racconti - le vicende di Brian Jones, ex chitarrista degli Stones; dell'ultimo garrotato del regime franchista, dei desaparecidos argentini, dell'eliminazione in carcere del leader delle pantere nere amerciane, di Roberto Franceschi e Francesco Lorusso uccisi in ordine pubblico; di Carolyn Lobravico, attrice del Living theatre uccisa dal proibizionismo e dal manicomio giudiziario; spuntano la Bloody sunday irlandese, l'epopea dei festival del proletariato giovanile e l'apertura dei manicomi con tutte le speranze tipiche di un'epoca capace di inseguire ogni utopia democratica e libertaria. Solo la fabbrica dell'amnesia può impedire di cogliere i link tra quegli anni e questa fase storica. A parere dell'autore il vuoto di memoria è stato creato anche «da noi quando, nel primo riflusso, ci rifugiammo in un linguaggio autoreferenziale che serviva a difenderci». Certo, «qualcuno assomiglia ancora agli angeli ribelli» ma a Tassinari non basta. Servirebbe un ponte che gli strumenti tradizionali - l'intervento politico e l'analisi sociologica - non ce la fanno più a tirare su. Quando pensa a tutto ciò, Tassinari si fa soccorrere da Franco Fortini che, meglio di altri, ha spiegato come, in un contesto segnato da una memoria deformata o del tutto inventata, il romanzo più di altri strumenti riesce sempre ad essere una forma di indagine sul mondo concreto e sulle persone che lo abitano. Si fa «metafora dei rapporti reali tra uomini, società e storia». Da qui la scelta di mettersi in gioco con il linguaggio complesso della narrativa, scegliendo il bivio che porta più lontano possibile dal rischio di svolgere una funzione consolatoria. Una cifra che trova Tassinari in ottima compagnia di colleghi come Massimo Carlotto, medesima generazione, stessa voglia di forzare i generi e di usare la narrativa come controinformazione.
Già il titolo - "D'altri tempi" - rimanda a un tempo nuovo, ancora da farsi, possibile come l'altro mondo, e ribalta l'accento reazionario che a una frase simile attribuivano classi e generazioni sfidate in quel decennio fatidico dagli angeli ribelli in ogni parte del mondo. Quanto alla nostalgia, si potrà pur essere un po' nostalgici oggi che per la prima volta nella storia le giovani generazioni stanno peggio dei loro padri? Reducismo e revisionismo, per Tassinari, stanno dentro al solito falso movimento del mainstream.