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Moby Prince, a vent'anni dalla tragedia nuovi file audio per la verità
Laura Montanari e Franca Selvatici
Fonte: Repubblica, 8 aprile 2011
8 aprile 2011

Domenica ci consegna l'anniversario dei vent'anni dalla dalla Moby Prince, la più grande tragedia della marina mercantile italiana dal dopoguerra. Centoquaranta morti e nessun colpevole. Mille sospetti, mille domande e possibili misteri. Il traghetto diretto a Olbia aveva mollato gli ormeggi alle 22.03 dal porto di Livorno, mezz'ora più tardi era già avvolto dalle fiamme alla deriva nella rada del porto toscano. C'era nebbia in mare secondo alcuni testimoni, secondo altri no. Per quanto oggi possa sembrare incredibile nessuno, per quasi un'ora, si accorse di ciò che avveniva a bordo del traghetto della Navarma.

Era il 10 aprile 1991. Alle 22.36 Renato Superina, comandante della petroliera Agip Abruzzo, contro la quale era finita la prua del Moby, lanciò l'allarme per un incendio a bordo dopo la collisione "forse" con una bettolina. Non era una bettolina ma un traghetto con 75 passeggeri e 66 membri dell'equipaggio. Eppure i soccorsi si concentrarono sulla petroliera. Lo attestano le registrazioni delle conversazioni sui canali dell'emergenza.

Alle 22.25.29 il Moby lancia il may day. "Siamo entrati in collisione, prendiamo fuoco". Il segnale è debolissimo. Alle 22.26 Livorno Radio prova a mettersi in comunicazione con il traghetto ma non ci riesce. Alle 22.27.24 è la petroliera a lanciare l'allarme. "Siamo incendiati, siamo incendiati, c'è venuta una nave addosso". Partono i soccorsi e con la nebbia (forse), le fiamme e il fumo sulla rada di Livorno cala una immensa, tragica confusione. C'è una comunicazione dei soccorritori all'Agip Abruzzo: "Ci dirigiamo verso l'altra nave che è completamente in fiamme e c'è gente in mare, andiamo a vedere di salvare qualcuno..."

Dall'Agip: "Vedete voi, noi siamo carichi di 82 mila tonnellate di petrol... tenete presente anche questo, vedete voi...". Ormeggiatori: "Lì stanno morendo delle persone, comandante..."
Altro dialogo. Rimorchiatori: "Sì, avanti". Dall'Agip: "La nave che ci è venuta addosso si è incendiata anche lei, però non so dove si trova...state attenti...non scambiate lei per noi".
La procura di Livorno, che nel 2006 aveva riaperto le indagini e che in questi anni ha ricostruito l'incidente ed esaminato tutti i misteri e le "verità nascoste" della tragedia, è giunta alla conclusione che vi furono molte e gravi omissioni, sia nei sistemi di sicurezza del Moby Prince, sia nella gestione dei soccorsi, ma si tratta di reati tutti quanti prescritti.

Luchino e Angelo Chessa, i figli del comandante del Moby, Ugo, che morì nel disastro, non sono convinti che tutte le responsabilità siano state portate alla luce. Il loro consulente tecnico, Gabriele Bardazza, ha riesaminato le registrazioni delle comunicazioni radio e sulla frequenza 2,182 mega Hertz, diversa da quella del canale 16 sul quale sono transitate gran parte delle comunicazioni di quella tragica notte, ha rilevato alcuni messaggi lanciati alle 22.56, circa 31/ 32 minuti dopo la collisione, da quella che sembra una stessa persona che parla in maniera concitata. "Non ci sente nessuno", si dispera. E pochi secondi più tardi: "Siamo sempre qui". Si tratta di comunicazioni che non sembrano essere state investigate durante le indagini sul disastro. Potrebbero essere le ultime grida dal Moby. Se così fosse, si avrebbe la conferma che i tempi di sopravvivenza, almeno per alcune delle 141 persone che viaggiavano sul traghetto, potrebbero essere stati superiori ai 20-30 minuti al massimo fissati dai consulenti tecnici dell'accusa e del tribunale. E che quindi, se i soccorsi fossero stati più tempestivi, altre persone oltre al mozzo Alessio Bertand avrebbero potuto salvarsi.

"Dopo vent'anni noi, familiari delle vittime, siamo disgustati, indignati, arrabbiati e da molto tempo non ci sentiamo tutelati dallo Stato. In certi momenti ci vergogniamo di essere cittadini italiani. Certamente non ci fermeremo". Lo scrive Luchino Chessa; suo padre morì insieme ad altre 139 persone. Chessa, nel suo ricordo della tragedia, sottolinea: "E' nostro compito mantenere la memoria storica di quello che accadde il 10 aprile e conseguentemente di tutto quello che è avvenuto nei successivi venti anni. E' nostro compito fare di tutto per avere giustizia, un sacrosanto diritto ed un obbligo per le generazioni future".

I figli di Chessa, animatori dell'associazione '10 aprile', non hanno mai creduto alla versione ufficiale in base alla quale il traghetto finì contro la petroliera a causa di un mix tra nebbia improvvisa, imprudenza in plancia di comando e mancato rispetto delle norme di sicurezza. "Già dopo i primi mesi dalla tragedia - scrivono - avevamo capito che c'era qualcosa che non andava e che la giustizia, in cui tra l'altro avevamo riposto immensa fiducia e con cui avevamo collaborato dando tutto il nostro contributo, non andava nel verso giusto".