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Moby Prince, ancora nebbia sui 140 morti
Luciano Scalettari e Luigi Grimaldi (autori di “1994”)
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2010
15 giugno 2010

L'URTO È VIOLENTISSIMO. LA PRUA del traghetto penetra nella fiancata dell'Agip Abruzzo, fora la cisterna contenente iranian light. L'onda di combustibile investe il Moby Prince. È un attimo e il traghetto si trasforma in un inferno di fuoco. Sono le 22:27 del 10 aprile 1991. Il destino del Moby Prince e dei suoi 141 passeggeri è segnato. Se ne salverà uno solo, il mozzo Alessio Bertrand. Solo ventiquattro minuti prima il traghetto ha staccato gli ormeggi. A Livorno è una tiepida notte di primavera, mare calmo, serata limpida. L'equipaggio effettua le operazioni di rito per un viaggio verso Olbia, come ogni giorno. L'equipaggio è al lavoro e i passeggeri si sistemano a bordo, chi nelle cabine, chi a bere qualcosa al bar della nave. Uomini e donne comuni, intere famiglie. L'uscita dal porto avviene nella più totale normalità. Poi accade qualcosa che nessuna verità giudiziaria è mai riuscita a spiegare. Perché il Moby Prince si schianta contro una petroliera della Snam, alta come un palazzo di 10 piani, illuminata come uno stadio e lunga 280 metri?

Quella dei passeggeri del Moby è stata una terribile agonia. Allo scontro e alla prima vampata ne sono sopravvissuti 120. Con la radio portatile di bordo i naufraghi si rifugiano nel salone Deluxe del traghetto, dotato di protezioni antincendio: là dentro sanno di poter resistere, in attesa dei soccorsi. L'apparato portatile del Moby Prince chiede aiuto, lancia il suo Sos. Due, tre volte. Ma nessuno lo sente. Nessuno ha udito neppure quello lanciato al momento della collisione. La radio, invece, riceve le comunicazioni che si intrecciano sul canale d'emergenza e tutti si rendono conto di quanto sia grave la situazione: nessuno li sta cercando. Asserragliati nel salone Deluxe passeggeri ed equipaggio ascoltano impotenti la petroliera che comunica la collisione con "una bettolina (piccola nave cisterna per trasporti costieri, ndr) che ci è venuta addosso". La ascoltano attirare su di sé i soccorsi senza comunicare che nel disastro è coinvolta una nave passeggeri, che c'è gente da salvare.

Nessuno degli 11 telefoni cellulari in possesso dei passeggeri riesce a chiamare a terra, nonostante la breve distanza dal porto. La plancia di comando è distrutta, Il comandante, Ugo Chessa, è morto. È rimasto in plancia fino all'ultimo, e non ce l'ha fatta. Il traghetto vaga in fiamme alla deriva come un fantasma incandescente, a due passi da Livorno con il suo carico umano in balia del fuoco. A bordo si cerca di resistere, ma inutilmente: dopo ore la temperatura nel salone diventa intollerabile. Decidono di uscire. Aprono un portellone alla ricerca di una di una via di fuga. Solo fumo e fiamme. È la fine. L'agonia degli ultimi termina all'alba. I primi soccorritori saliranno sul Moby Prince solo 16 ore dopo la collisione.

COS'È ACCADUTO IN QUEL PUGNO DI MINUTI che precede le 22:27? A 19 anni dal fatto, oggi, ci sono ancora due verità, o meglio due ipotesi contrapposte. Ci sono state inchieste e processi, di fatto senza colpevoli. La ricerca della verità a un certo punto sembrava un capitolo chiuso, finché l'avvocato (l'onorevole ed ex magistrato) Carlo Palermo, legale dei figli del comandante Chessa (Angelo e Luchino) e di alcuni altri familiari delle vittime, ha presentato un'istanza di riapertura dell'inchiesta, con diversi nuovi elementi su cui indagare e un'ipotesi forte: che quella notte nel porto di Livorno fosse in atto un traffico internazionale d'armi. La Procura di Livorno l'ha fatto. Ha lavorato per quattro anni. Il risultato? Due nuovi ponderosi documenti: la richiesta di archiviazione della Procura - depositata il 5 maggio scorso - e l'opposizione all'archiviazione, presentata dieci giorni più tardi dall'avvocato Palermo. La lettura dei due documenti lascia esterrefatti.

Secondo la Procura il caso Moby Prince non nasconde alcun mistero. I magistrati concludono che quella sera nella rada di Livorno tutto è accaduto a causa di un fenomeno alquanto singolare: un banco di nebbia, ma non una nebbia qualsiasi, nebbia d'avvezione. Un fenomeno tipico dello Stretto del Bosforo, per il quale una corrente d'aria molto calda incontra una superficie sensibilmente più fredda (il mare) e si producono improvvisi banchi di fitta foschia. L'incidente? Causato da errore umano. Colpa del comandante, insomma, che di fronte all'evento-nebbia non ha fatto ciò che avrebbe dovuto, quindi non ha visto la petroliera, quindi vi si è infilato dentro.

RIGUARDO I SOCCORSI, ANCHE SU QUESTO non ci sono misteri: dopo mezz'ora erano ormai tutti morti, sostengono i magistrati, come peraltro aveva detto lo stesso sopravvissuto Bertrand poco dopo esser stato tratto in salvo, alle 23:43, a meno di un'ora e mezza dall'incidente. Perciò, del fatto che nessuno per 16 ore sia salito a bordo del traghetto per accertarsi delle condizioni dei passeggeri, nessuno ha colpa. Questi esiti, di fatto, riportano indietro l'orologio della tragedia del Moby Prince di molti anni, al momento della sentenza del processo di primo grado: di nuovo nebbia ed errore umano. Un passo indietro persino rispetto alla sentenza del processo di appello. Tre magistrati hanno firmato la richiesta di archiviazione (Carla Bianco, Antonio Giaconi e Massimo Mannucci) e delle 150 pagine del documento finale colpisce che definiscano "fantasiose ricostruzioni destituite di ogni fondamento", tanto i nuovi elementi scoperti dall'avvocato Palermo quanto i risultati delle inchieste giornalistiche. Niente traffici, nessun mistero.

Nessuna responsabilità. Ma il punto chiave è la nebbia. Se questo strano fenomeno della "nebbia d'avvezione" c'era, allora le 150 pagine dei tre magistrati hanno un senso. Se non c'era, o se non è solidamente dimostrato che c'era, allora forse è tutto da rifare, di nuovo. Perché senza la nebbia i molti inquietanti misteri che circondano il caso Moby Prince rimangono irrisolti e senza risposte. Quindi, rimane il quesito fondamentale: la nebbia c'era o non c'era? Molti testimoni dicono di no, il sopravvissuto Bertrand dice di sì, ma solo a partire da un anno dopo il disastro. Altri ancora parlano di foschia o fumo, ma sempre dopo lo sviluppo dell'incendio sul Moby e sulla petroliera. Infine, non si capisce perché i magistrati non dedichino una sola parola a un documento scovato da Carlo Palermo: si tratta della pagina del registro dell'Avvisatore marittimo (la "torre di controllo" del porto) del 10 aprile 1991, che nessuno aveva mai cercato. C'è un breve appunto tracciato a penna, relativa esattamente al momento della collisione e che, dopo quanto abbiamo scritto, non può non risultare sconvolgente: "Condimeteo alle 22:27: cielo sereno, mare calmo, vento da Sud (160°), 2/3 nodi, visibilità 5/6 miglia".

Al momento della collisione, secondo l'Avvisatore marittimo, si vedeva chiaro e limpido per 10 chilometri e non si capisce come il traghetto possa non aver visto un colosso come la cisterna della Snam. E se nebbia non c'era, come ha potuto la petroliera "scambiare" un grande traghetto passeggeri per una piccola "bettolina"? Quanto al mozzo, Palermo ha segnalato alcune circostanze che hanno portato alla elargizione di una ingente buona uscita e di un vitalizio a Bertrand, a cavallo della sua testimonianza al processo. Restano allora, tutti, gli interrogativi sulla più grande e disastrosa sciagura che abbia colpito la marina mercantile Italiana nella storia della Repubblica. Senza risposta sono le domande sulla presenza e le attività di tre navi militari americane e altre quattro "militarizzate" (ossia sotto comando dell'esercito Usa) ferme in rada a Livorno, quella sera e nei giorni precedenti, come pure una nave militare francese e tre fregate italiane della Marina. Senza risposta la questione dell'intensa movimentazione di materiale bellico e di esplosivi portato fuori dalla base Usa/Nato di Camp Darby. Irrisolta la ragione per cui avviene un inspiegabile disturbo radio o interferenza che rende impossibili le comunicazioni del Moby. Senza risposta le incertezze e le mancate registrazioni dei radar.

MA ANCHE NEL DOCUMENTO DEI GIUDICI livornesi resta dichiaratamente irrisolto il mistero delle navi fantasma. Ombre con nomi in codice: "Theresa" e "Ship One", mai identificate, come un motoscafo che ad altissima velocità si "sgancia" al momento del disastro e fugge verso Nord. Irrisolta la questione del repentino cambiamento di versione del mozzo Bertrand in meno di mezz'ora, quando - tratto in salvo da un'imbarcazione di ormeggiatori - fa dire via radio di accorrere sul Moby per salvare gli altri naufraghi e poi invece, trasbordato su una motovedetta della capitaneria, che i passeggeri sono tutti morti. Senza risposta la questione del ritrovamento a bordo del traghetto di tracce di sette differenti tipi di esplosivo.

Irrisolta la ragione delle numerose manomissioni e sabotaggi messi in atto sul relitto del Moby Prince e su altre prove. Irrisolta la questione - cruciale - della posizione precisa dell'Agip Abruzzo, il cui comandante (Renato Superina) fornisce alla Capitaneria e ai soccorritori indicazioni diverse e contraddittorie (fatto che i magistrati spiegano con lo spostamento della petroliera causato dalla collisione, e in parte con la concitazione del momento, che sarebbe tale da spingere lo stesso Superina a dire che la nave aveva la prua rivolta a Nord invece che a Sud): cruciale, perché cambia radicalmente la dinamica dei fatti: secondo un video girato da terra da un testimone, Nello D'Alesio, risulterebbe che il Moby Prince abbia squarciato la fiancata della petroliera da sud, ossia dal lato opposto a quello visibile da riva. Ma se così fosse, il traghetto non sarebbe entrato in collisione mentre si allontanava dal porto di Livorno, bensì rientrandovi dopo aver invertito la rotta. Irrisolta la questione posta dalle dichiarazioni di alcuni testimoni che hanno sostenuto di aver visto bagliori e fiamme provenire dalla fiancata della petroliera qualche tempo prima che il Moby Prince vi si dirigesse contro. Restano soprattutto senza risposta gli interrogativi posti da ciò che accade sulla "21 ottobre II", la nave della flotta Shifco dell'ingegnere italo somalo Said Omar Mugne - quella su cui indagheranno Ilaria Alpi e Miran Hrovatin tre anni più tardi, prima di essere assassinati - che si trova a Livorno ferma per riparazioni, ma che alcuni testimoni sostengono essersi mossa la sera del disastro.