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Recensione: "Come mi batte forte il tuo cuore", di Benedetta Tobagi
Francesco "baro" Barilli
4 gennaio 2010

Mi sono avvicinato al libro di Benedetta Tobagi ("Come mi batte forte il tuo cuore", Einaudi, 19,00 euro) con sentimenti contrastanti, convinto - essenzialmente per due fattori - che avrei potuto commentarlo con difficoltà. In primo luogo, pensavo di trovare in questo lavoro pregi e difetti analoghi a quelli che riscontrai in "Spingendo la notte più in là" di Mario Calabresi; un libro sicuramente valido, come racconto sul dolore personale e sull'elaborazione del lutto, di minor valore se assunto come ricostruzione di una parte della storia d'Italia (per di più filtrata dalla soggettività del figlio del Commissario ucciso nel maggio 1972): un lavoro dignitoso, che si confronta con i limiti di una rappresentazione parziale, valida nella misura in cui quei limiti li ammette con franchezza. In secondo luogo, proprio Benedetta, su Repubblica, aveva recensito con parole lusinghiere il mio "Piazza Fontana". Temevo che il senso di gratitudine, unito al piacere di avere successivamente conosciuto l'autrice proprio nell'anniversario della "madre di tutte le stragi", potesse minare la mia obbiettività e depotenziare eventuali critiche.
La lettura del libro ha fatto piazza pulita di questi dubbi. Innanzitutto, Benedetta non è "solo" la figlia di Walter Tobagi (giornalista del Corriere della Sera ucciso il 28 maggio 1980 da un gruppo terrorista di sinistra che agiva in una sorta di competizione con le più "famose" Brigate Rosse), ma una scrittrice molto abile, che riesce a mixare nel suo libro partecipazione umana e lucidità di analisi. In un certo senso è fuorviante un passaggio della quarta di copertina, dove il libro viene descritto come "tenero e terribile": definizione efficace ma calzante solo in parte. Nel racconto, è vero, c'è tenerezza, tutta la tenerezza di una figlia che ha potuto conoscere e amare il padre solo nel rimpianto del vissuto che le è stato strappato, ma questo sentimento è solo la cornice di un quadro in cui si trovano analisi spietate e ben documentate: sulla scalata piduista al gruppo Rizzoli, sulla degenerazione della politica e di un giornalismo servile, sui "giochi di palazzo" all'interno del Corriere della Sera, diventato terra di conquista nella partita giocata per il controllo dell'informazione. L'unica analisi di Benedetta che non mi sento di condividere, pur rispettandola e trovandola ben argomentata, è quella sugli anni '70. Ai suoi occhi la criminale uccisione del padre sembra trasfigurare quel ciclo in un magma di follia e violenza, cancellando, o almeno sottovalutando, quanto di positivo ci fu in un periodo contrassegnato anche da lotte e conquiste sociali, da un bisogno di partecipazione collettiva che - depurato dalle derive criminali - sarebbe utile ricordare proprio oggi, di fronte al vuoto intellettuale che sembra avvolgere gli ultimi anni. Un limite (meglio: una divergenza dalle mie convinzioni) che è riduttivo e banalizzante affrontare in questa sede: più opportuno sarebbe un incontro in cui queste due visioni, invece di contrapporsi, probabilmente si arricchirebbero vicendevolmente. E comunque, se pure si trattasse di un limite, nulla toglierebbe a un libro che, fin dal bellissimo titolo (ripreso da una lirica di Wislava Szymborska), avvolge e trascina in un abisso in cui trovare, accanto a toccanti ricordi personali, la critica alle due degenerazioni della vita pubblica italiana degli anni '70: quella sanguinosa dei terroristi e quella in doppiopetto di politicanti assetati di potere; due degenerazioni che Walter Tobagi cercò di indagare con lo sguardo critico e curioso del vero giornalista. Un abisso da cui il lettore riemerge senza fiato, proprio mentre Benedetta lo sorprende uscendone con la forza e la dignità che ottiene dall'aver definitivamente consacrato una memoria che sta a noi tutti non disperdere.

Francesco "baro" Barilli