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Dallo stadio a Genova '01: la scuola della repressione
Fabrizio Crasso
Fonte: Liberazione, 8 novembre 2009
8 novembre 2009

La recente sentenza per gli incidenti durante il G8 del 2001, che ha visto undici giovani condannati a 100 anni di carcere in totale (ben cinque con pene sopra i dieci anni), riporta all'attenzione il reato di "devastazione e saccheggio", quell'articolo 419 che unisce più di qualsiasi altra cosa ultras e antagonisti politici.
Residuo del fascista codice Rocco, l'articolo 419 recita che «Chiunque, fuori dei casi preveduti dall'articolo 285, commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito». Questo l'art. 285 a cui si fa riferimento: «Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con la morte (La pena di morte è stata soppressa e sostituita con l'ergastolo)». Istituito per reprimere le sommosse popolari dei primi anni del secolo, il 419 sembrava caduto nel dimenticatoio del codice penale: non fu applicato agli arrestati per la rivolta di Genova del 1960, né durante gli anni '70. Eppure dopo il 2001 qualcosa è cambiato.
I primi a farne le spese sono stati i 25 denunciati per gli scontri di piazza del G8. Subito dopo lo stesso reato fu contestato a 10 ultras laziali per gli scontri allo stadio olimpico di Roma a fine agosto 2002. Successivamente, nel marzo del 2004 altri ultras (sponda Roma e Lazio) furono arrestati e fu loro contestato lo stesso reato al termine degli incidenti nel famoso "derby del bambino morto".
Per quanto riguarda i movimenti antagonisti, il processo genovese ha fatto da apripista all'utilizzo dell'articolo 419: a Torino nel 2005 e a Milano nel 2006, agli arrestati in seguito agli incidenti con le forze dell'ordine venne di nuovo contestato il reato di devastazione e saccheggio. E devastatori e saccheggiatori divennero anche gli ultras arrestati per gli "assalti" alle caserme della Ps a Roma, l'11 novembre 2007, avvenuti dopo la morte di Gabriele Sandri.
La pericolosità dell'applicazione di un reato del genere sta non solo nell'inasprimento delle pene, quanto nell'aleatorietà del reato stesso, dato che la giurisprudenza ne contempla anche il "concorso morale". La dottrina relativa al reato di devastazione e saccheggio mette chiaramente in luce come il reato non sia una semplice serie di danneggiamenti e di rapine, ma sia una fattispecie qualitativamente diversa, in cui l'ordine pubblico viene leso al punto tale da costituire una concreta minaccia per la vita collettiva, per lo Stato. Ma davvero i 25 di Genova hanno messo in pericolo lo Stato? Davvero un gruppo di ultras ha la capacità di mettere in crisi un sistema o un paese? Ma la responsabilità penale non è personale?
«La militarizazione delle curve è un trend che va avanti ormai da tempo. Io ho sempre parlato di un laboratorio pubblico di repressione nel senso che lo stadio viene strumentalizzato come un precedente per far passare nella società possibili politiche di piazza e strumenti di repressione che altrimenti sarebbe difficile giustificare. Quello che viene fatto allo stadio oggi ce lo ritroveremo nelle società di domani, basta pensare al meccanismo delle riprese di massa dei partecipanti, che dallo stadio ce lo siamo ritrovato in piazza a Napoli e a Genova». Ciò che affermava già alcuni anni fa il sociologo Valerio Marchi è in gran parte condivisibile. Si può obiettare forse che la curva non è l'unico "laboratorio" del genere, ma di sicuro è uno di questi spazi; tra politiche repressive, tecniche investigative, videosorveglianza, sugli ultras vengono testate le misure che poi sistematicamente vengono estese a tutti gli "indesiderabili" o gli "scorretti": militanti politici, immigrati, lavoratori, studenti.
Come non notare, da questo punto di vista, le spaventose similitudini tra blindatura degli stadi e blindatura delle piazze? Entrambe sono frutto delle politiche repressive che spesso e volentieri hanno lo stesso "ideatore" nei vari ministri dell'Interno. Entrambe inoltre conseguono lo stesso risultato: l'emorragia che ha portato allo svuotamento degli stadi non è troppo dissimile da quella che ha svuotato le piazze.
La creazione di luoghi extraterritoriali popolati da "mostri sociali" è qualcosa di piuttosto sottile che dà il via libera a qualsiasi operazione. Il meccanismo è piuttosto semplice: si creano indesiderabili (ultras, black bloc, immigrati, eroinomani, barboni) e si fa del terrorismo mediatico sull'opinione pubblica. Si crea così una sorta di "zona grigia" dove tutto diviene più o meno lecito in termini di repressione. Chi è infatti disposto a difendere i "devastatori", i "violenti", i "reietti della società"?
«Questa pericolosa tendenza a criminalizzare e reprimere le opposizioni sociali, ci deve far riflettere al di là delle specifiche appartenenze politiche, sulla progressiva restrizione di qualsivoglia spazio minimo di agibilità politica, per le lotte e le opposizioni sociali che laddove hanno espresso momenti di forte rottura attraverso una radicalizzazione autonoma dello scontro e delle forme organizzative scelte, hanno dovuto subire una repressione durissima molto preoccupante sotto il profilo dalla pratica attiva dei propri diritti. Ci riferiamo qui alla lunga lista di una serie infinita di episodi e di casi dove azioni, scioperi, occupazioni blocchi stradali ed altre forme di protesta e di riappropriazione». (dal sito www.acrobax.org )
Quanto alla stadio, posta così la questione non ha senso, nessun Grande Vecchio tira le fila di un movimento grande e radicato nel tempo come quello ultras in Italia. Se usciamo però da questa lettura di comodo, caricaturale persino, troviamo una realtà ben più articolata di quella descritta da Marchi. Una realtà dove i percorsi personali, politici e calcistici di centinaia di "militanti ultras" si intrecciano e si sovrappongono, dando vita a un fenomeno - quello della politicizzazione delle curve italiane - che è innegabile. Si badi bene, in curva non necessariamente "piccoli militanti crescono", non necessariamente organizzazioni politiche, oggi soprattutto di estrema destra, reclutano cioè nuovi quadri. Probabilmente avviene anche questo, ma non è questo il dato più rilevante. «La rilevanza del discorso politico in curva sta nella diffusione (spesso consapevolmente perseguita, ma neanche questo è elemento decisivo, poiché la catena è fatta di tanti anelli diversi, ognuno con diversa consapevolezza e capacità "strategica") di una cultura, di una mentalità, di un linguaggio, di una "visione del mondo"», spiegano Guido Liguori e Antonio Smargiasse.
I primi a cadere nel tranello della fabbrica dei "mostri sociali" sono poi coloro che ne condividono luoghi o "pratiche": c'è infatti l'errata sensazione che le misure repressive non tocchino i "tifosi normali" o i "pacifisti", ma non è così. Daspo (divieto di accedere alle manifestazioni sportive), trasferte vietate, biglietti nominali non in vendita il giorno della partita e inasprimento delle pene riguardano tutti. Un'agenzia di stampa sul Roma-Livorno delle scorse settimana parlava di un Daspo inflitto a un tifoso livornese di 60 anni perché in possesso di un biglietto intestato ad sua amica, a dimostrazione del fatto che i primi a fare le spese di queste misure sono spesso proprio i "tifosi normali", coloro che si sentono esclusi dalla morsa repressiva. Ma anche nella sinistra, anche in quella più sensibile e che più vive la repressione, c'è una certa diffidenza riguardo a tutto ciò che avviene intorno allo stadio. La deriva a destra e l'egemonia da parte delle frange neo-fasciste all'interno delle curve fanno scattare un meccanismo di rifiuto per questo mondo. Il fatto che "le sinistre" abbiano più o meno abbandonato le curve non può essere però un alibi che possa permettere politiche liberticide e autoritarie. L'acquiescenza sull'introduzione della "tessera del tifoso" e sulla schedatura di tutti coloro che frequentano gli spalti (tribuna o curva che sia) rende di fatto accettabile che "si possa essere schedati quando è necessario". Non c'è poi da stupirsi se di fronte alla schedatura di immigrati o dei rom dei campi non ci sia la dovuta indignazione o levata di scudi.
Le misure applicate negli stadi sembrano piccole rinunce dei propri diritti e delle proprie libertà ma in realtà sono l'apripista per ben più pericolose riforme e lesioni. Volente o nolente lo stadio è un laboratorio. I reparti della celere hanno in passato testato le tattiche di piazza, di scontro e difesa, contro le tifoserie: quanto appreso negli stadi è stato poi messo in pratica nelle piazze, dal G8 di Genova in poi. Le curve, in effetti, sono percepite come zone extraterritoriali e c'è spesso la sensazione che i tifosi godano di libertà o diritti che nessun cittadino, fuori dagli impianti sportivi, possiede. Ma la realtà è ben diversa. La "sicurezza" si esprime al meglio e controlla: c'è libertà nei biglietti nominali, nel divieto di vendita dei tagliandi la domenica, nei prefiltraggi multipli, nei tornelli, negli steward con manganello e poteri di polizia, nelle forze dell'ordine schierate, nelle norme rigide ed ottuse su striscioni e bandiere, nell'estromissione di fumogeni e torce, tamburi e bottiglie di plastica, lattine e aste flessibili, nelle telecamere, nelle trasferte vietate? C'è libertà in un luogo dove può essere emesso un Daspo - ovvero una sanzione amministrativa - comminato senza una reale applicazione del diritto alla difesa?
L'agonia degli stadi e delle curve è sotto gli occhi di tutti. Ad oggi, nonostante le promesse del ministro dell'Interno Maroni, nonostante il fenomeno ultras sia moribondo e gli scontri ormai rari, questi stadi superblindanti rimangono deserti. Le famiglie ne rimangono lontane a causa del caro-prezzi e delle strutture fatiscenti prodotte dallo scempio di Italia '90. Si inseguono "modelli inglesi" che sono decisamente più libertari del nostro, ma gli aumentati poteri di polizia non hanno portato a una vivibilità diversa e non basteranno nuovi stadi con annessi centri commerciali a invertire la tendenza. Finché esisteranno non-luoghi dove i diritti possono essere sospesi arbitrariamente, dove tutto è consentito in nome dell'ordine pubblico, il problema rimarrà. Che si tratti di una curva, di una piazza o di una caserma. In fondo, sono in molti ad essere convinti che per la sicurezza di tutti un tifoso può essere pestato, così come un immigrato o un possessore di sostanze stupefacenti (basti pensare alla morte di Stefano Cucchi). Tutto è lecito, tutto è necessario; anche spaccare la testa a un ultras allo stadio, anche spaccare la testa ad un manifestante alla Diaz.