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"Caro Paolo". Lettera aperta di Haidi Giuliani a Paolo Scaroni
Haidi Giuliani

Caro Paolo,

ho letto la tua lettera su Liberazione. Tu scrivi al Ministro della Repubblica, nata dalla Resistenza e retta dalla nostra Costituzione. Non so quanto al Ministro degli Interni importi di tutto questo: del patto che ha portato uomini e donne a morire per liberarci dal fascismo; della Carta Costituzionale; per non parlare del tifoso Paolo Scaroni. Sarei curiosa di sapere che cosa ne pensa davvero, al di là dei giuramenti che ormai pare non vincolino più nessuno.
Ho letto, e intanto pensavo 'gli scrivo, non gli scrivo': il sì era per dirti che vorrei abbracciarti, il no perché temo di rattristarti ancora di più. Vedi Paolo, la casa dove mi trovo, quella dove è cresciuto Carlo, si trova su un lato del torrente Bisagno, un po' arrampicata sulla collina; dall'altro lato, in basso, c'è il quartiere di Marassi con il carcere e lo stadio. Di qui si sente tutto, gli urli di gioia per ogni gol, il battito disperato sulle sbarre quando le condizioni di vita nelle celle sovraffollate con il caldo dell'estate diventano ancora meno sopportabili. Che c'entra il carcere, dirai tu. Ecco, per me non è solo perché qui a Genova carcere e stadio sono fianco a fianco; è perché entrambi hanno a che fare col business, per entrambi si tratta di soldi, di mercato, e quando c'è di mezzo il Mercato scatta la repressione.
Non ho mai visto uno stadio dall'interno mentre, per un certo periodo, avendone la possibilità, ho visitato numerosi luoghi di detenzione. Là dentro, non sono la sola a dirlo, ci sta soprattutto povera gente, uomini e donne perseguitati da una giustizia strabica che si accanisce sulle persone più deboli ma tentenna, quando addirittura non arretra, di fronte a quelle più garantite, più ricche o più astute. I grandi ladri, i grandi delinquenti, spesso sono fuori; ma la giustizia deve dimostrare di funzionare, il sistema carcerario deve dimostrare di essere necessario, sempre di più; non dimentichiamo che ci sono anche posti da salvare: attorno ai luoghi di detenzione si affaccendano imprese e impresine e perfino cooperative sociali. Non vogliamo licenziarle tutte, naturalmente! Così si riempiono le celle di disperati, gente che avrebbe piuttosto bisogno di un lavoro vero e di sostegno sociale.
Ho visto con i miei occhi stanze sovraffollate o senza finestre o con le pareti umide d'acqua; ho visto gli sguardi smarriti di giovanissimi stranieri che non avevano neppure capito il perché della propria detenzione, dopo l'incontro con qualche frettoloso avvocato d'ufficio e data la carenza di mediatori culturali. Ho visto la barbarie del "fine pena mai", che nega qualsiasi speranza, anche la più piccola, di essere riammessi nella società e contraddice lo scopo di rieducazione che la nostra Carta Costituzionale affida all'istituzione penitenziaria. Ho visto in molti casi l'addestramento alla sottomissione (se sbagli la "domandina", se non sai scrivere in italiano, peggio per te, quando parla una guardia è meglio non contraddire e tenere gli occhi bassi, meglio dimenticare di avere dei diritti, meglio non impicciarsi dei guai altrui...). Non ho visto, naturalmente, ma mi è stato raccontato di minacce, di botte e soprusi. Come nei Cpt, oggi Cie: nello stesso numero del giornale dove è pubblicata la tua lettera, alla pagina precedente c'è l'ennesima testimonianza a questo proposito. D'altra parte, se è tanto difficile mettere il naso all'interno di un luogo di detenzione, se è quasi impossibile far emergere i casi di violenza, la persona o il gruppo che la esercita si sentirà sempre più intoccabile e si convincerà della propria impunibilità. E l'impunità è quasi sempre garantita anche agli agenti in ordine pubblico, anche in prossimità degli stadi.
Ti confesso che non amo il mondo del calcio. Lo sport è bellissimo, niente da dire, so apprezzare gli sport: quando ero giovane anch'io ne ho praticati alcuni, anche i miei figli, soprattutto Carlo; e Carlo ha giocato a calcio naturalmente; ma, appunto, un conto è il gioco giocato e un conto quello guardato; e tra i giochi guardati il calcio è quello che permette i grandi numeri, il che vuol dire grandi incassi, grandi affari, gadget, pubblicità, grande mercato, insomma il business. E allora bisogna incitare ma anche controllare le masse, e bisogna reprimere. Il mondo del calcio non si è mai ribellato davvero a questa logica, alla divisione dei ruoli: noi, loro, la polizia. Eppure basterebbe poco, basterebbe uno sciopero generale dei tifosi...
Vedi, Paolo, dopo aver ascoltato tante testimonianze e aver visto ore ed ore di filmati, io sono convinta che a Genova, oltre al disegno repressivo organizzato nelle alte sfere, ci sono stati agenti (non parlo solo di ps) che hanno picchiato persone per il gusto di ferire, di sottomettere, di umiliare. Mi è capitato di parlare in questi anni con poliziotti democratici, offesi dal comportamento che un buon numero di colleghi ha tenuto nelle giornate genovesi del G8; ricordo in particolare un giovane agente di pubblica sicurezza alla grande manifestazione per la pace in piazza S. Giovanni a Roma: non riusciva a parlare, tanto piangeva. E ne ricordo altri che mi hanno detto "Noi non siamo così, non siamo tutti così". Lo so, per fortuna. Eppure non mi basta. Non mi bastano le belle parole e i buoni sentimenti. Non mi bastano dopo i tanti racconti, le testimonianze che parlano di atteggiamenti arroganti, di intimidazioni, di colpi dati dove non rimane il segno, di pistole puntate alla fronte. Sempre da vigliacchi. Sempre nei confronti di chi è più debole, di chi non ha gli strumenti, economici o culturali, per difendersi e denunciare. Testimonianze che parlano di saluti fascisti, canzoncine razziste, gagliardetti appesi alle pareti di pubblici uffici. Quanto è avvenuto per le strade di Genova, alla scuola Diaz, nella caserma di Bolzaneto non è nato dal nulla: è il risultato di un greve intreccio di ideologie reazionarie, di cultura della violenza, di una falsa illusione di riscatto da complessi di inferiorità. Per questo non mi basta, perché le violenze continuano e l'abitudine all'impunità è doppiamente pericolosa perché arma le mani di altri delinquenti, con o senza divisa.
Nel 2004 abbiamo raccolto migliaia di firme in calce a una petizione che chiedeva, oltre ad una commissione di inchiesta parlamentare sui fatti genovesi e all'introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura, la messa in atto di norme in materia di identificazione, mediante codice alfanumerico, del personale delle forze impiegate in servizio di ordine pubblico. Da quando abbiamo presentato la petizione sono passati diversi anni e due governi ma non abbiamo ottenuto risposta. In cambio è stato reintrodotto il reato di offesa a pubblico ufficiale, che mi fa pensare al delitto di lesa maestà. In realtà vediamo spesso reazioni quanto meno spropositate: tanto per fare un esempio, ricordi le immagini del sedicenne di Ostia, nei giorni del G8, con l'occhio mostruosamente tumefatto e la faccia insanguinata, ancora preso a calci da un gruppo di valorosi agenti? Due minuti prima era seduto in terra con gli amici, vicino a una bottiglietta di birra, e alzava il dito medio verso la polizia schierata. Che diamine, occorre che qualcuno insegni la buona educazione a questi ragazzacci!
Non è una novità. Ho letto da qualche parte che il carabiniere ausiliario che ha sparato a Francesco Lo Russo nel '77 a Bologna, prendendo la mira, intervistato da un giornalista che gli chiedeva perché avesse aperto il fuoco contro gli studenti "Te lo posso dire, ha risposto, perché so che non mi faranno niente: ci guardavano e ridevano." Delitto di lesa maestà, appunto, e legittimo uso delle armi, anche allora.
E' stato dopo aver conosciuto il padre e gli amici di Francesco che ho cominciato a pensare a un modo per mantenere la memoria di tante vittime da ordine pubblico, tante vittime dimenticate o sconosciute dall'opinione pubblica. E' così che è nato il sito www.reti-invisibili.net, che vive grazie all'intelligenza appassionata e generosa di alcuni compagni e di Baro in primo luogo.
La settimana scorsa ero a Ferrara con i genitori di Federico Aldrovandi. Baro, che coordinava la serata, ha letto alcuni passi di "Una storia quasi soltanto mia", il bel libro che Piero Scaramucci ha scritto con Licia Pinelli all'inizio degli anni ottanta e che la Feltrinelli ora ha ristampato. Ad un certo punto Licia dice:
"Non mi sento sconfitta perché ho fatto tutto quello che potevo fare nell'ambito della legalità. Gli sconfitti sono coloro che non hanno avuto il coraggio di arrivare a scoprire la verità [...] Dimmi tu chi sono gli sconfitti. Certo, c'erano le bugie dei poliziotti, poi con gli anni diventava sempre più difficile ricostruire la verità. Ma non raggiungere la verità giudiziaria è una sconfitta dello Stato. E' lo Stato che ha perso perché non ha saputo colpire chi ha sbagliato [...] E poi non è una questione di vincere o di perdere: semplicemente uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che non esiste."

Ti abbraccio
Haidi Giuliani

Settembre 2009