Questa è la storia di una donna italiana che credeva nella giustizia. Aveva 5 anni quando i nazisti le uccisero il padre, il capitano Francesco De Negri, a Cefalonia il 24 settembre 1943: la piccola Marcella, soltanto triste per quella prolungata assenza, si limitava a ripetere «quando torna papà?». Poi lo saprà, che non sarebbe più tornato e le prese l'angoscia che la pervade ancora mista a rabbia perché sono passati 66 anni da allora senza che la signora Giustizia, in Germania e in Italia, sia stata in grado di mettere alcunché su due piatti che bilanciano il vero dal falso. Con gli anni Marcella ha saputo, direttamente o indirettamente, tanti particolari che non le hanno alleviato il dolore ma che le hanno almeno donato un quadro paterno di maggiore affetto e di stima.
Il capitano De Negri, ufficiale di complemento, vicecomandante della batteria antinavale SP 33, aggregata alla divisione Aqui, fu l'unico ufficiale a rimanere fino alla fine con i suoi uomini circa 120 marinai. Il comandante in prima, Armando Serafini, si era fatto ricoverare all'ospedale all'ospedale da campo numero 37 per una «contusione al ginocchio»: sarà fucilato anche lui, il 25 settembre, un giorno dopo. L'amico capitano di corvetta Vittorio Barone aveva già fatto un'altra scelta che lo porterà a passare al tribunale speciale militare della marina della Repubblica sociale di Milano. Con lui si salveranno anche 36 ufficiali esibendo la tessera fascista o perché altoatesini. In 137 furono fucilati dai nazi davanti alla casetta rossa. Fra loro il padre di Marcella, la più piccola di cinque figli. Il 3 settembre di quell'infausto 1943 il capitano aveva scritto alla moglie l'ultima lettera: «... riceviamo notizie contraddittorie... [proprio quel giorno era stato firmato a Cassibile l'armistizio n.d.r.], farò il mio dovere qualsiasi cosa accada...». Aveva la tessera del Partito nazionale fascista, ma non la esibì, per decenza etica. Né si sarebbe mai sognato, come fecero i «salvandi», di giurare fedeltà alla repubblichetta messa su da Hitler per affetto e calcolo verso il suo sodale Mussolini.
Marcella negli anni seppe altre notizie: 65 dei colleghi di suo padre erano morti in combattimento, altre centinaia verranno uccise appena dopo la resa. Così capitò al capitano Amos Pampaloni mentre lo trascinavano incolonnato e disarmato: lo mitragliarono, lui e i suoi uomini, alle spalle. Rimase sul terreno fuori di coscienza ma era stato colpito non gravemente. Lo curarono i partigiani greci con cui combatterà. Migliaia di altri soldatini furono uccisi così. I cadaveri gettati in mare o infoibati alla meno peggio. Cifre esatte non se ne hanno dato che non si sa neanche bene quanti fossero in quei giorni a Cefalonia gli uomini della divisione: il generale comandante della Aqui, Antonio Gandin, aveva fatto bruciare, prima della resa, tutto il materiale d'archivio.
NEGARE L'OBLIO
Il 2000 fu per Marcella l'anno della svolta: da due articoli apparsi su Micromega e, successivamente, dal libro "L'armadio della vergogna", apprese che anche la strage di Cefalonia, classificata al numero 1188 del «registro degli orrori» che elencava le stragi nazifasciste «sotterrate» per mezzo secolo dai procuratori generali militari a seguito di ordine di governo, era finita nel macero delle cose da dimenticare. Nel 2002 intentò, insieme ai fratelli, causa allo Stato italiano per la (ir)ragionevole durata della macchina giudiziaria dopo un palleggio tra Roma e Perugia. La risposta dei giudici fu vergognosa: non risultava pendente alcun processo in quanto il 14 giugno 1960 il giudice istruttore militare Carlo Del Prato aveva prosciolto per non aver commesso il fatto gli assassini di Cefalonia. Tra loro c'era il generale Hubert Lanz, comandante del 22° corpo d'armata che aveva inviato le truppe omicide nell'isola. Quest'ultimo era stato perfino elogiato perché aveva contenuto le perdite italiane, eppure era stato condannato a Norimberga a 12 anni di galera per «aver commesso il peggior delitto di tutte le guerre moderne». Ne sconterà però soltanto tre.
Nel 2005 Marcella De Negri si costituì come parte civile a Monaco di Baviera contro il sottotenente Otmar Muhlhauser che aveva comandato il plotone di esecuzione davanti alla casetta rossa. Era l'ultimo degli assassini ancora in vita. Dopo la divisa si mise a fare il mastro pellicciaio, sempre di pelli, insomma trattava. Ma il procuratore August Stern lo prosciolse per prescrizione sostenendo che i militari italiani come i disertori tedeschi dovevano essere considerati traditori e, quindi, meritevoli di morte. Le stesse parole in sostanza dette da Muhlhauser, interrogato in Germania: «Tra di noi ufficiali si parlava degli uomini della divisione italiana solo come traditori. E al tradimento vi era un'unica risposta, l'esecuzione».
Vi furono opposizioni e ricorsi ma la storia non cambiò. L'8 ottobre 2007 l'avvocato Gilberto Pagani, a nome di Marcella De Negri e di Paola Fioretti, figlia del Capo di Stato Maggiore della Aqui, chiese che venisse aperta l'inchiesta in Italia a carico di Muhlhauser e consegnò tutti gli atti delle istruttorie condotte in Germania, il tutto tradotto e certificato a norma di legge. Questo avvenne dopo una lettera aperta dell'agosto 2007 al Capo dello Stato in cui si invocava giustizia e ci si domandava come mai la Procura militare di Roma pur a conoscenza dell'esistenza in vita di massacratori non avesse a suo tempo, cioè dai primi del 2000, aperto un'inchiesta in base all'obbligatorietà dell'azione penale.
IL DINIEGO DEL PROCURATORE
Il procuratore militare Intelisano dette la sua motivazione: non ho aperto un'inchiesta perché la stanno facendo i colleghi tedeschi ma su questo aspetto è stata a suo tempo aperta un'indagine da parte del procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione, Alfio Massimo Nicolosi.
Intanto pur essendo stata annunciata con clamore mediatico dallo stesso Intelisano l'apertura del procedimento contro il fucilatore, si è rinviato da un mese all'altro, forse - dice Marcella De Negri - in attesa della morte dell'imputato per evitare «offese» all'amatissima «Germania». La lotta contro il tempo da lei intrapresa è perduta. Al finire di questa istoria è automatico chiedersi: dov'erano, in tutto questo tempo, le istituzioni dello Stato italiano? Sono state accanto a Marcella De Negri? E ai familiari delle migliaia di vittime massacrate in nome del nazismo e del fasci-smo a Cefalonia? Nonché a tutte le altre vittime il cui elenco fu nascosto nell'armadio della vergogna per cinquant'anni, per un ordine del primo o del secondo governo di centrodestra a guida De Gasperi?
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I fatti.
Quella della Divisione Acqui nell'isola greca nello Ionio fu la peggiore strage dei militari tedeschi ai danni. degli italiani nella Seconda Guerra mondiale: si parla di circa 2.300 soldati uccisi in battaglia e massacrati a sangue freddo dopo essersi arresi, mentre 1500 morirono nell'affondamento dei tre piroscafi che dovevano portarli nei lager nazisti. Nel caos dell'8 settembre '43, il generale Antonio Gandin, comandante della Acqui, cercò di salvare l'onore, rifiutando il disarmo, e la vita dei soldati evitando una battaglia persa in partenza. Le trattative proseguirono fino al 14 settembre, poi i soldati scelsero di combattere. Nel 2001 Cario Azeglio Ciampi definì Cefalonia «il primo atto della Resistenza, di un'Italia libera dai fascismo». I bombardamenti degli Stukas cominciarono il 15 settembre. Il 22 la Acqui si arrese. La vendetta tedesca fu spietata e immotivata: fucilazioni di massa di prigionieri, cadaveri bruciati e gettati in mare.
La storia, i processi e una fiction discussa.
Una fiction Rai del 2005, firmata Riccardo Milani e con Luca Zingaretti e Luisa Ranieri, ha raccontato l'eccidio nell'isola greca all'indomani dell'armistizio dei 1943. Con il risultato di sollevare polemiche e molte critiche.
Tra numerosi libri vanno segnalati «L'armadio della vergogna» dello stesso Giustolisi, sulle stragi «sotterrate» nella procura generale a Roma da 50 anni (Nutrimenti editore) e «La divisione Aqui a Cefalonia. Settembre 1943», volume curato da Giorgio Rochat e da Marcello Venturi, pubblicato da Mursia.
È d'obbligo citare «Bandiera bianca a Cefalonia». Una narrazione tra romanzo e storia sempre di Marcello Venturi (fu giornalista de l'Unità) che ha un merito fondamentale: uscì nel 1963 ed è stato uno dei primi testi a far riemergere la tragedia bellica. Nel 2004 l'ha ripubblicato la Mondadori.