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Condannati a 15 anni. Assassinarono Abba perché era "un negro"
Virginia Lori
Fonte: Liberazione, 17 luglio 2009
17 luglio 2009

L'hanno ucciso a sprangate, un anno fa. L'hanno rincorso, lo hanno fatto cadere a terra. E lo hanno colpito dieci, quindici volte con mazze di ferro. Una la teneva in mano il padre, l'altra suo figlio. Insieme hanno ucciso Abdul Salam Guibre, solo Abba per gli amici. Aveva 19 anni. L'hanno ucciso accusandolo di aver rubato un pacco di biscotti nel loro bar. Accusa per altro mai provata. Ma l'hanno ucciso soprattutto perché era "nero", l'hanno ucciso gridandogli "negro di merda". Ora, i due - il padre e il figlio assassini - dovranno passare 15 anni e 4 mesi in carcere. Ieri, infatti, Fausto e Daniele Cristofoli - 51 anni il primo, 31 anni il secondo - sono stati condannati dal tribunale di Milano. Ad una pena leggermente più lieve di quella chiesta dal pubblico ministero ma la sentenza, sostanzialmente, accoglie in pieno la tesi sostenuta dall'accusa. Una tesi per cui l'omicidio di quel ragazzo - dal nome esotico ma cittadino italiano, esattamente come tutta la sua famiglia - ha avuto una motivazione razziale. Abba, insomma, è stato assassinato perchè aveva la pelle scura. Una sentenza che fa giustizia anche delle improbabili parole pronunciate da Berlusconi, che l'anno scorso, davanti allo sgomento per questo delitto, se ne uscì così: "Ho telefonato al Ministro degli Interni, ha fatto accertamenti. Siamo in grado di escludere che il drammatico episodio abbia radici razziali...". I giudici hanno deciso diversamente.
E in questi mesi di dibattimento, il tribunale è riuscito a ricostruire nel dettaglio cosa accadde quella notte. La notte del 14 settembre del 2008.
Abba ed i suoi amici avevano trascorso molte ore davanti ad un locale di corso Lodi. Lunghe chiacchiere, in una notte di fine estate. Poi, quando stava per sorgere l'alba, qualcuno propose di andare a chiudere la nottata in un altro bar. Il gruppo, però, disponeva solo di un'auto, non c'era posto per tutti. Come sempre Abba lasciò il posto ad altri, a due sue amiche. Lui avrebbe preso il bus notturno.
Per tutti, l'appuntamento era alla stazione centrale. L'unico posto di Milano dove forse, c'era ancora qualche locale aperto. Ma di aperto c'era solo il chiosco mobile gestito da Fausto Cristofoli e da suo figlio. Un camioncino, trasformato in bar, posteggiato a 200 metri dalla stazione.
Abba e i suoi amici prendono un caffè, pagano e subito i due gestori li aggrediscono verbalmente. Accusano il gruppetto di aver rubato una scatola di biscotti. Valore: due euro e 50. Abba è il più convinto nel negare, mostra le tasche vuote. I due baristi, però, non si danno per vinti. Partono gli insulti. "Negro di merda". Glielo ripetono una, due, dieci volte.
Gli altri ragazzi del gruppo racconteranno alla polizia che loro neanche ci facevano più caso. Ascoltavano queste offese quotidianamente nella civile Milano. Loro non ci facevano più caso, Abba invece sì. Lui era l'unico del gruppo che reagiva sempre agli insulti razzisti. Rispondeva a tono, non si faceva intimorire.
E così è accaduto anche quel mattino, alle sei, in una città che lentamente stava svegliandosi. La sua risposta alle offese, ha fatto saltare i nervi ai due proprietari. Che nel giro di pochi secondi sono usciti dal bancone, brandendo due spranghe di ferro. Che tenevano a portata di mano.
I ragazzi scappano. Ma a Cristofoli padre e figlio, non basta. Li rincorrono, raggiungono i primi tre, fanno cadere Abba e contro di lui si accaniscono. Smettono solo quando Abdul Salam Guibre, a terra in un lago di sangue, non da più alcun segno di vita. Era entrato in coma.
Gli amici del ragazzo avvertono una volante, c'è la corsa verso l'ospedale Fatebenefratelli. Tutto inutile: Abba muore poche ore dopo.
E di lì a poco saranno arrestati anche i due assassini. Tranquilli, erano nelle loro case. Convinti che il ragazzo non fosse morto e che tutto si sarebbe risolto in una bolla di sapone.
A marzo di quest'anno, invece, sono stati rinviati a giudizio, ieri la prima sentenza. Nel frattempo, in tutto questo tempo - come ha suggerito loro l'avvocato - padre e figlio, dopo aver chiesto il rito abbreviato, hanno scritto ai genitori di Abba. Hanno scritto ad Assane Guiebre e a sua moglie, emigrati dal Burkina Faso sedici anni fa, quando Abba aveva solo tre anni. Sedici anni in cui Assane ha lavorato sempre nella stessa ditta metalmeccanica, impiego che ha consentito a lui e alla sua famiglia di ottenere la cittadinanza, ormai molti anni fa. I due hanno scritto ai genitori chiedendo perdono.
Un perdono che non è arrivato. La madre ha risposto non direttamente agli assassini del figlio ma al giudice. Spiegando che lei, anche se profondamente religiosa, non se la sentiva di perdonare nessuno. Quella richiesta, semmai, andava indirizzata al Dio nel quale credono i due. L'unico - scriveva - in grado di stabilire se ci fosse davvero pentimento.
Ma ora tutto questo è alle spalle. Ora c'è la sentenza, c'è la sentenza che oltre al carcere prevede un risarcimento. Non i seicentomila euro chiesti dal pubblico ministero ma meno della metà decisi dal giudice. Ora ci sarà l'appello, subito annunciato dall'avvocato dei due condannati. La tragica vicenda di Abba ancora non è finita.