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Sciogliere i nodi della storia
Giovanni De Luna
Fonte: Il Manifesto, 17 aprile 2008
17 aprile 2008

Trent'anni. Questa sarà la durata massima del «segreto di stato». In uno dei suoi ultimi sussulti il governo Prodi ha varato un provvedimento destinato a incidere in profondità sui nodi che si sono aggrovigliati in questi decenni intorno all'intreccio tra verità e giustizia. Il nuovo regolamento, previsto dalla legge di riforma dell'intelligence, in pratica obbliga i vari «servizi», Dis (ex Cesis), Aise (ex Sismi) e Aisi (ex Sisde) e le forze di polizia a «organizzare le consultazioni dei loro archivi» «per quanti lo richiedano».

Trent'anni vuole dire che da oggi diventano accessibili non solo le carte sul rapimento e l'uccisione di Aldo Moro ma anche tutte quelle che riguardano gli attentati e le stragi come quelle di Brescia (1974) e di Piazza Fontana (1969). È un passo avanti nella direzione di restituire credibilità a uno Stato troppo volte reticente, pronto a violare truffaldinamente le sue stesse regole. Sia gli episodi di violenza delle organizzazioni terroristiche di sinistra che operarono negli anni '70, sia quelli in cui sono stati coinvolti solo i fascisti dello squadrismo eversivo hanno trovato una loro chiara configurazione giudiziaria e, bene o male, hanno definito un quadro di certezze processuali: sono stati individuati i colpevoli, sono state ricostruite con esattezza le modalità con cui si svolsero i fatti. Non è stato così per nessuno degli episodi di quella che riassuntivamente viene indicata come la strategia della tensione, quelli, per intenderci, in cui si sono presentati insieme tre elementi: i neofascisti come esecutori materiali, gli apparati dello Stato in un ruolo ambiguo, se non direttamente colpevole, un attentato di tipo stragista, che puntava cioè semplicemente a «sparare nel mucchio» al fine di alimentare una sensazione diffusa di insicurezza e di disordine sociale da attribuire ai comunisti e alla debolezza dello Stato democratico. La prima spiegazione di una realtà così inquietante viene suggerita da una constatazione puramente fattuale: in tutti questi episodi furono implicati uomini dello Stato; lo Stato ha rinunciato a fare giustizia ogni volta che si profilava un coinvolgimento dei suoi apparati. Più in generale, quale che sia stato veramente il ruolo delle istituzioni in quelle vicende è già chiaro quali furono le conseguenze politiche di quelle scelte. L'impunità garantita allo stragismo e agli apparati dello Stato coinvolti in episodi criminosi rimise in discussione la capacità dell'opinione pubblica di penetrare all'interno dei segreti del Potere, di rendere tutto trasparente, percepibile, controllabile, dentro la logica di una democrazia compiuta. C'è una lunga litania di tentativi di colpi di stato, depistaggi, insabbiamenti che accompagna la storia dei servizi segreti nell'Italia repubblicana. Ricordiamo i 150mila dossier del Sifar scoperti nel 1974 (poi distrutti, ma ritrovati anche nelle carte di Licio Gelli); i 20mila fascicoli illegali prodotti dai servizi di sicurezza e di informazione venuti alla luce nel 1999; le migliaia di documenti, frutto di indagini clandestine e illecite condotte - attraverso l'utilizzo di banche date istituzionali - da un'associazione a delinquere che comprendeva impiegati della Telecom insieme a servizi segreti nazionali e internazionali, ritrovati ancora nel 2006. È una sorta di «cuore nero» della nostra Repubblica, dove il «segreto» assume contorni inquietanti. E a ogni scandalo che coinvolge i nostri servizi sembra che la storia si ripeta, che si tratti di una sorta di eterno ritorno di un qualcosa che ormai appartiene alle nostre istituzioni, ne connota irreversibilmente le identità e il funzionamento. Intendiamoci. Esiste una fisiologia nel segreto e negli arcana imperii; nessun potere, nemmeno quello democratico, potrebbe funzionare adeguatamente vivendo interamente alla luce del sole, senza nessun tipo di attività segreta. Con una sorta di rassegnata consapevolezza Norberto Bobbio ha parlato di una tendenza naturale e quindi ineliminabile «di ogni forma di dominio a sottrarsi allo sguardo dei dominati nascondendosi e nascondendo, ovvero attraverso la segretezza e il mascheramento». Il potere politico si è sempre avvalso del segreto come mezzo di potenza. Il problema è che la logica della segretezza e il prevalere della ragion di Stato, portati oltre limiti ragionevoli, possono non solo condurre alla menzogna e all'inganno dell'opinione pubblica, ma anche provocare danni e guasti per l'azione degli stessi governanti. La divaricazione tra i fatti reali che vengono nascosti e la loro rappresentazione ufficiale provoca fenomeni di autoinganno e conduce a decisioni politiche errate. In uno scenario molto più rilevante per la storia del mondo, la pubblicazione dei Pentagon Papers da parte del New York Times nel 1971 rese evidente, ad esempio, come l'intera catena di decisioni che portò all'intervento americano in Vietnam nasceva dall'ostinata volontà del Pentagono di ignorare i fatti e la realtà per inseguire l'ottusità burocratica dei servizi. Per l'Italia quelle scelte ebbero conseguenze politiche che solo adesso possono essere riconosciute in tutta la loro ampiezza. Dopo Piazza Fontana, la campagna di stampa avviata dalla sinistra extraparlamentare contro la «Strage di Stato», con i suoi effetti dirompenti, aveva rafforzato la consapevolezza che in democrazia l'opinione pubblica ha la forza di mostrare la nudità impudica del Potere. I risultati furono molto efficaci; si smontò un paradigma accusatorio contro Valpreda e gli anarchici e si rafforzò la fiducia nella dimensione «virtuosa» di una mobilitazione politica in grado di allargare gli spazi di verità e di democrazia nel funzionamento delle istituzioni. Poi, la successiva, inarrestabile sequenza delle stragi si rivelò esiziale, alimentando la sensazione che a contare in quella fase fosse solo l'effettivo esercizio dell'autorità tramite la violenza, rendendo irrilevante qualunque aspetto etico nell'azione politica. La mancanza di verità ripristinò la certezza che c'erano alcune cose che non potevano essere conosciute: fu questa l'anticamera psicologica del passaggio dalla curiosità, dalla partecipazione, dal protagonismo alla passività, alla rassegnazione, alla subalternità. Così, lo scenario storico entro cui si collocano le stragi dal 1974 in poi è segnato dall'inizio di una progressiva divaricazione tra il mondo della politica e quello della società civile. Cominciò allora il ritrarsi dei movimenti collettivi dalla politica: il rendersi conto che la politica era fatta di stragi, di un vasto e impenetrabile sottofondo fangoso, ebbe conseguenze devastanti. Da una parte favorì la tendenza del sistema dei partiti a rinchiudersi in se stesso, a diventare sempre più accentuatamente un meccanismo che promuoveva uomini e non idee o programmi; dall'altra produsse la deriva di una società civile progressivamente abbandonata a se stessa, quella stessa società che lungo gli anni '80 si strutturerà attorno a nuovi strumenti di riconoscimento identitario come l'appartenenza territoriale e la coincidenza dei «valori» con gli «interessi».
Giovanni De Luna