Con una nota di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone
La riconciliazione tra la vittima e il reo appartiene alla sfera personale, al rapporto tra due persone. E' un rapporto privato. Non può e non deve divenire un rapporto "pubblico", tanto meno se pubblico significa "politico". La riconciliazione non può essere usata come una pena aggiuntiva. Ai detenuti o agli ex detenuti viene negato o decurtato - di fatto o ex lege - il diritto di voto. Oggi gli si vorrebbe togliere, nel nome delle vittime, anche il diritto di parola. La pena deve essere solamente quella decisa dal giudice. Non può essere decisa dai media, dai politici, dalle vittime e non può durare in eterno. Lasciamo libere le coscienze di seguire il loro percorso nell'intimità. (Patrizio Gonnella)
La voglia di escludere per sempre gli ex detenuti dal consorzio civile, dalle prerogative che rendono cittadini e titolari di diritti si è ormai fatta, passo dopo passo, senso comune. Senza grosse resistenze. Non sono più considerate sufficienti le pene detentive, le misure di sicurezza e quelle accessorie e interdittive previste dal codice: introdotte dal giurista Rocco durante il fascismo, in questo clima paiono persino garantiste. Le pene accessorie (interdizione legale, interdizione dai pubblici uffici, dall'elettorato attivo e passivo, da una professione o un'arte, impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione, esercizio della potestà genitoriale, etc.), ai sensi di legge, possono sempre venire meno, o per la decorrenza del tempo previsto o, in caso di interdizione perpetua, attraverso l'istituto della riabilitazione. La cui concessione, tradizionalmente, si verifica con il contagocce, specie nel caso dei reati connessi alla lotta armata, ma quel che conta è che, almeno, sia prevista.
Il salto all'indietro − verso il Medioevo e la gogna, cioè lo stigma che renda sempre riconoscibile il reo e la sua colpa − si è reso vieppiù manifesto con la vicenda che ha riguardato Sergio D'Elia, di cui è stata contestata l'elezione a deputato. Riabilitato ai sensi di legge, ma non nel senso divenuto comune. Quello che dice che "si può essere ex detenuti, ma mai ex assassini": è il leit motiv proposto quasi ogni giorno da giornali e programmi televisivi, oltre che, comprensibilmente, da famigliari di vittime. In genere ci si riferisce agli ex terroristi, ma questa posizione prevedibilmente è ora tracimata, arrivando a comprendere qualsiasi autore di gravi reati. Chiudendo così il cerchio, dato che gli autori di piccoli reati, tradizionalmente tossicodipendenti e immigrati, sono, per così dire, costitutivamente privati di diritti e di considerazione sociale.
Negli Stati Uniti si sono inventati la regola del "tre colpi e sei fuori", nel senso che sei dentro a vita. Qui, invece, sei dentro anche quando sei fuori: l'ex detenuto diventa un gruppo sociale stigmatizzato a priori e per sempre, una tipologia umana di indesiderabile. Anche tecnicamente, pre-giudicato. Giudicato una volta per tutte.
Eppure, il ritorno alle regole e alle forme della democrazia, all'impianto di diritti e doveri, dovrebbe essere considerato il costituzionale, positivo coronamento della finalità principale della pena.
Invece, dopo la lunga campagna contro D'Elia (ma anche contro chiunque degli ex detenuti ed ex terroristi non si sia reso silente e invisibile), da ultimo, assistiamo al rancore trasversale: polemiche sono state alimentate anche contro la candidatura della sua compagna, incensurata dirigente del Partito radicale e promotrice dell'associazione umanitaria Nessuno Tocchi Caino.
Ma, a dispetto delle Sacre scritture, per linciare Caino ora c'è la ressa.
Ormai è diventato un coro, assordante, pervasivo. Talvolta sguaiato, talaltra genuinamente riflessivo. Traversa destra, centro e anche sinistra. L'assunto di fondo è che, di fronte a gravi reati e in particolare all'omicidio, la pena non può mai avere termine. Anche all'interno del volontariato che opera nelle carceri pare essersi fatta strada tale considerazione. Ha scritto infatti Ornella Favero, responsabile di Ristretti orizzonti: "Quando si dice di un terrorista 'ha pagato il suo debito', le vittime spariscono. [...] Non ci sono debiti che si saldano con anni di carcere, gli anni di carcere magari possono essere anche troppi a volte, ma il debito vero resta, resta con le vittime e non si estingue. Avere la consapevolezza di questo significa che forse oggi tante vittime non chiedono a chi ha ucciso di non rientrare mai più nella società, forse chiedono loro solo di rientrarci in punta di piedi, guardandosi intorno nel loro cammino e accettando di essere qualche volta meno protagonisti".
All'irrimediabilità di una vita interrotta deve dunque corrispondere una pena ininterrotta, che travalichi le stesse condanne e accompagni per sempre il reo, quale che sia il suo atteggiamento e la sua riflessione. Un fine pena mai, concettualmente analogo all'ergastolo e alla stessa pena capitale. Del resto, l'invito insistente al silenzio è l'altra faccia, la forma garbata della richiesta di morte civile, di pena perenne. La quale, a sua volta, è allusione simbolica e concreta alla pena di morte.
Quando si sostiene che ogni qual volta si citi un ex terrorista, anche non in ragione del suo passato ma pure del suo presente, occorra ricordare i reati da lui compiuti, non si fa altro che teorizzare la pena della gogna.
Così si nega che quella persona abbia possibilità di un presente, si afferma che la tal persona, che pure è stata condannata ed ha scontato la sua pena, non può avere veste pubblica se non a partire dal suo etichettamento in quanto "terrorista" o "assassino". Come nella colonia penale di Kafka, si vuole apposto un marchio indelebile sulla sua fronte.
E davvero non si capisce perché l'attenzione alle vittime dei reati debba automaticamente comportare l'imposizione del silenzio e di un surplus di pena e di esclusione sociale per gli autori del reati, se non in una logica squisitamente autoritaria, da Stato etico. Attenzione alle vittime che è certo doverosa, nella misura in cui però si fonda su di un riconoscimento di pari dignità per tutte le vittime, di destra o di sinistra che siano gli autori o quale che sia la condizione di rilevanza sociale delle vittime.
Così, in tutta evidenza non è, come bene ha commentato la madre di una delle vittime della repressione poliziesca, di fronte al fatto che l'attuale Parlamento ha deciso come data in memoria delle vittime del terrorismo il 9 maggio, anniversario dell'uccisione di Aldo Moro, anziché come da alcuni proposto il 12 dicembre, giorno della "madre di tutte le stragi", quella di piazza Fontana. Il che equivale a leggere un libro partendo dalla fine e stracciando tutti i primi capitoli. Ha scritto Lidia Franceschi:
"Mi sono chiesta e mi chiedo, soprattutto oggi dopo il 9 maggio, ma il dolore appartiene solo a certe categorie di parenti? Nell'Etica di questo Stato di Diritto noi parenti delle vittime delle forze dell'ordine abbiamo il diritto al riconoscimento del nostro dolore oppure siamo i reietti di questo paese? [...] Mai ho sentito ricordare, da coloro che coprono alte cariche istituzionali, i morti di Mussumeli, di Reggio Emilia, delle Fonderie Riunite di Modena, di Avola, di Battipaglia, di Genova o il nome di Ardizzone, Pinelli, Saltarelli, Serantini, Franceschi, Giuseppe Tavecchio, Giannino Zibecchi, Giorgiana Masi, Piero Bruno, Walter Rossi, Pierfrancesco Lorusso...Carlo Giuliani e tantissimi altri giovani che hanno pagato con la vita l'ostinata caparbietà di non volere una democrazia solamente formale [...] Questi sono i cittadini italiani di cui non si parla mai o se ne parla per criminalizzarli, facendo di ogni erba un fascio per bollarli e liquidarli come pericolosi sovversivi. Essi rappresentano la non-memoria di questa nazione".
Egualmente importanti le considerazioni di altri, che pure hanno avuto famigliari uccisi, ad esempio Nando Della Chiesa:
"Per arrivare a una pacificazione dovremo essere capaci di mettere queste due vittime [Calabresi e Pinelli] sullo stesso piano. Calabresi è stata la prima vittima di un omicidio politico legato alla teoria della lotta armata. E Pinelli una vittima innocente della repressione".
O le parole di Adriano Sofri:
"Franco Serantini, senza famiglia, orfano da orfanotrofio. Fu massacrato da poliziotti in strada e in questura, abbandonato a crepare in una cella di isolamento. In che giorno della memoria toccherà a lui?".
Naturalmente, non si tratta di mettere in "competizione" le vittime, di "pesarle" con soggettivi e indecenti bilancini, a seconda della maggiore o minore distanza da sé, né di negare le responsabilità, collettive e individuali, scaricandole su altri o su dinamiche oggettive. Si tratta di essere intellettualmente onesti e culturalmente laici nel ricostruire la storia, laddove il dolore e le sofferenze di chi è stato personalmente colpito o coinvolto non esauriscono il discorso. Evitando che la storia stessa venga fatta diventare un blob informe e incomprensibile. Come succede quando, come lo scorso 21 marzo a Milano, si sceglie di commemorare le vittime della mafia sotto la lapide che ricorda due magistrati uccisi da Prima Linea.
Sfugge il nesso, mentre è forte e oggettivo il rischio di creare categorie antistoriche, e anche di strumentalmente confondere storie e identità degli autori dei reati, ma in qualche modo anche delle vittime. È per questo processo di confusione e di revisione storica se, come ha detto Manlio Milani, famigliare di una delle vittime della strage di piazza della Loggia a Brescia, "quando si parla di 'anni di piombo' ci si riferisce solo al terrorismo di sinistra".
Si è così progressivamente costruito un inossidabile senso comune, un incattivito sentimento pubblico, secondo cui tutte le tragedie − e le nefandezze − di questo Paese sono da attribuirsi alla lotta armata di sinistra.
Ed è così, come comprovano varie ricerche, che i più giovani − ma non solo loro − sono convinti che le stragi di Piazza Fontana, quella di Piazza della Loggia, quella della stazione di Bologna siano state opera delle BR.
Ma ciò non pare preoccupare né scandalizzare nessuno. Eppure è il segno della grande sconfitta della verità, di una imponente falsificazione, non innocente e non casuale. Tesa a preservare impunità e carriere, catene di omertà e complicità, autoassoluzioni e Ragioni di Stato, che continuano a tenere ermeticamente chiusi molti "Armadi della vergogna".
Portare la responsabilità di gravi reati, e tanto più di aver tolto la vita ad altri, è certo un dato intramontabile e irrimediabile. Ma tale è nella coscienza delle persone coinvolte e nella memoria di quelle colpite. Non può divenire prescrizione e pena aggiuntiva extra legem. A meno di accettare di mettere tra parentesi il diritto e i suoi confini, per accedere a forme private di giustizia. Sarebbe un modo di dare assurdamente e postumamente ragione a chi, negli anni Settanta, sosteneva le ragioni della rivolta armata, a fronte di una democrazia svuotata e corrotta, di una giustizia inadempiente alla quale si proponeva di supplire con una giustizia alternativa.