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E' con le stragi nere che inizia il terrorismo
Sergio Segio
Fonte: Liberazione, 19 marzo 2008
19 marzo 2008

Come prevedibile e previsto, si intensifica la campagna di ostracismo infinito contro gli ex militanti della lotta armata, che aveva recentemente visto un passaggio significativo nel veto posto dal Pd alla candidatura di Sergio D'Elia. La Black list, per la prima volta, arriva adesso a rivolgersi anche contro i parenti. Sono di ieri le polemiche contro Elisabetta Zamparutti, dirigente del partito radicale e promotrice dell'associazione umanitaria Nessuno Tocchi Caino, ora candidata alle prossime elezioni. Le stesse voci che si erano levate contro D'Elia ora si rivolgono contro la candidatura di Elisabetta. La cui colpa sarebbe quella di avere «idee equivoche», vale a dire di sostenere che il movimento della dissociazione contribuì alla fine del terrorismo, ma ancora di più di essere la compagna di Sergio D'Elia. Siamo così arrivati al rancore trasversale, in un crescendo inarrestabile.
Walter Veltroni, nel trentesimo anniversario del sequestro di Aldo Moro, ha preso parola per dire che gli ex terroristi «dovrebbero avere il buon gusto di evitare di riempire giornali e tv». Non si è evidentemente ancora accorto che i pressanti e concreti inviti a scomparire che da decenni si susseguono da destra e ora più insistentemente da centrosinistra, hanno avuto effetto: da anni non vi sono più ex della lotta armata disponibili a essere intervistati e a comparire pubblicamente, per stanchezza e per sottrarsi all'immancabile linciaggio.
Negli anni Ottanta e Novanta, quegli stessi commentatori, forze ed esponenti politici sostenevano che non andava abbassata la guardia e non bisognava favorire «colpi di spugna». Come si sa, i colpi di spugna non vi sono stati, i progetti di legge tesi a una soluzione politica sono stati cestinati e le pene sono state scontate, o stanno ancora scontandosi, per intero: sono oltre 50.000 gli anni di carcere sinora effettivamente pagati da circa 5000 persone per quelle vicende, un'entità senza precedenti storici. Nel 1952, a sette anni dalla sconfitta del fascismo, responsabile di guerre, genocidi, immani stragi e persecuzioni, in carcere restavano solo 266 condannati; più o meno lo stesso numero di quelli che in Italia, dopo 30 anni, stanno ancora scontando la pena per le vicende degli anni Settanta. Già nel 1948 una legge estinse i provvedimenti di epurazione e consentì ai fascisti di rientrare nei ranghi dell'amministrazione statale, nella magistratura, negli apparati di polizia, mentre i partigiani ne venivano espulsi (premessa, questa, della repressione antioperaia degli anni '50 e della successiva strategia della tensione).
Così, negli anni Novanta, si è cominciato a dire che anche avere scontato le pene non basta per tornare a essere cittadini, perché «si può essere ex detenuti, ma mai ex assassini», come ha ripetuto in questi giorni per l'ennesima volta, tra i tanti, Antonello Piroso dagli schermi de La7.
Ora, un nuovo, e conseguente nella cultura della vendetta infinita, salto di qualità: anche i parenti degli ex militanti vanno emarginati e stigmatizzati, impediti all'attività politica e professionale.
Ogni morto per violenza politica è un morto di troppo: questo va detto e ripetuto a chiare lettere. Ma ciò non può fare dimenticare un fatto innegabile: la gran parte degli attentati a opera di organizzazioni di sinistra ha visto condanne e pene scontate, mentre la quasi totalità delle violenze e omicidi a opera delle destre è rimasta impunita: le stragi, ma anche i singoli omicidi, come quello di Fausto e Iaio, di cui ieri ricorreva il trentesimo anniversario, ovviamente ignorato dalle istituzioni e dai media. Per non dire delle vittime delle forze dell'ordine, che storicamente godono di una ferrea regola dell'impunità. Come ha scritto la madre di uno di loro, Roberto Franceschi: «Mai ho sentito ricordare, da coloro che coprono alte cariche istituzionali, i morti di Mussumeli, di Reggio Emilia, delle Fonderie Riunite di Modena, di Avola, di Battipaglia, di Genova o il nome di Ardizzone, Pinelli, Saltarelli, Serantini, Franceschi, Giuseppe Tavecchio, Giannino Zibecchi, Giorgiana Masi, Piero Bruno, Walter Rossi, Pierfrancesco Lorusso... Carlo Giuliani e tantissimi altri giovani che hanno pagato con la vita l'ostinata caparbietà di non volere una democrazia solamente formale .... Questi sono i cittadini italiani di cui non si parla mai o se ne parla per criminalizzarli, facendo di ogni erba un fascio per bollarli e liquidarli come pericolosi sovversivi. Essi rappresentano la non-memoria di questa nazione».
Questo muro della non-memoria è stato costruito, mattone dopo mattone, in questi anni. Con azioni, doppiopesismi, omissioni, silenzi, prudenze, depistaggi.
Tanto che oggi, secondo numerosi sondaggi, la maggioranza dei giovani studenti si dichiara convinta che le stragi di Milano, di Brescia o di Bologna siano state opera delle Br.
Tanto che oggi a Milano, mentre si sfrattano dalle sedi storiche l'Anpi e l'Aned, l'associazione dei deportati nei lager nazisti, si discute di istituire una Casa della memoria, come omaggio e ricordo alla Resistenza e alle vittime del fascismo e, assieme, a quelle delle stragi e del terrorismo degli anni Settanta. Una proposta che trova consenso anche a sinistra. E anche questo è segno dei tempi. Tutto assieme, tutto mischiato: dopo il revisionismo storico, siamo al "confusionismo".
La scorsa settimana, a Milano, vi è stata la presentazione del libro Segreto di Stato , dell'ex presidente della Commissione parlamentare sulle stragi e il terrorismo Giovanni Pellegrino, con i giornalisti Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri. In quell'occasione, Manlio Milani, famigliare di una delle vittime della strage di Brescia, ha richiamato una piccola-grande verità: quando si parla di anni di piombo si intende solo il terrorismo rosso. E ha fatto una piccola-grande proposta: lo Stato dovrebbe fare un gesto di riconoscimento di Giuseppe Pinelli, come vittima innocente, arrestato illegalmente e morto nella questura di Milano.
Naturalmente, questa verità e proposta non hanno trovato eco.
Ma è solo da lì che si può ripartire, se si vuole costruire davvero verità e riconciliazione: dalla pari dignità di tutte le vittime, dal ristabilimento di uno sguardo storico non viziato, da uno svelamento degli "Armadi della vergogna" della Ragione di Stato. Ciò significa che occorre leggere il libro drammatico di quegli anni cominciando dalla prima pagina, non ricordando e fermandosi solo sull'ultima. Il Parlamento ha scelto di istituire la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo il 9 maggio, data dell'uccisione di Moro, anziché il 12 dicembre, giorno in cui "una generazione perse l'innocenza" e la strage di piazza Fontana deviò la storia di questo Paese. Già questo indica quanto profonda, pur spesso in buona fede, sia la confusione e la rimozione, anche a sinistra.
Da lì bisogna invece ripartire: dalla diciassettesima vittima di piazza Fontana, Giuseppe Pinelli, laddove il commissario Calabresi ne fu la diciottesima. Dal come è cominciata, e per responsabilità di chi, l'intera vicenda della strategia della tensione, preludio e innesco della degenerazione armata dei movimenti. Da una considerazione della storia come processualità, da conoscere e indagare anche nel rapporto tra cause ed effetti, non come coperta da tirare a proprio tornaconto. Dalla memoria veduta come dovere sociale, non come clava. Dalla consapevolezza che non vi sarà vera giustizia sino a che, appunto, vi sarà Segreto e Ragion di Stato. Quella stessa che ha portato al sacrificio di Aldo Moro.